Abbazia di San Benedetto di Scalocchio – Città di Castello (PG)

L’Abbazia sorge oggi su un’area vastamente abbandonata e spopolata ma che nel medioevo e fino a pochi anni or sono fiorente di attività agricola, ma oggi purtroppo appare come una landa desolata. L’Abbazia fa da controcanto alla vicina Abbazia benedettina marchigiana di Lamoli dedicata a San Michele Arcangelo.

 

Cenni Storici

I ruderi della chiesa abbaziale di San Benedetto di Scalocchio e quelli del vicino, omonimo, castello sorgono a circa 600 m slm, in prossimità del punto in cui, dalla confluenza del fosso Bolina con il fosso di Scalocchio, nasce il fiume Candigliano, che, molto più a valle, dopo aver attraversato i centri abitati di Piobbico e Acqualagna e la gola del Furlo, si getta nel fiume Metauro.
L’abbondante presenza acqua in una zona a prevalenza agricola seppur montana, ha fatto si che nei pressi dell’abbazia si trovano ben quattro mulini.
Pur non facendo parte geograficamente della Valtiberina, quest’area montana, oggi spopolata, è storicamente legata ad essa in particolare a Città di Castello, tanto che, pur trovandosi sul versante adriatico dell’Appannino umbro – marchigiano e risultando più facilmente raggiungibile dal territorio di Apecchio, fa ancora oggi parte del territorio comunale tifernate, quindi dell’Umbria.
La presenza di una comunità monastica a Scalocchio sembra risalire ai secoli VI – VII circa.
L’attestazione più antica pervenutaci è datata 951 e riguarda la conferma imperiale di alcuni beni del monastero di Scalocchio nella provincia ecclesiastica della Massa Trabaria, che si estendeva dal fiume Metauro nelle Marche, al Marecchia in Romagna e al Tevere in Umbria e Toscana.
La chiesa di San Benedetto di Scalocchio figura tra le dipendenze dell’abbazia di Sansepolcro citate nel diploma di Enrico IV, datato 1082.
In realtà, il testo relativo a Scalocchio sarebbe stato aggiunto posteriormente e la sua dipendenza da Sansepolcro non trova alcuna conferma documentaria.
In un documento del 24 febbraio del 1208, si afferma che un “donnus Barfolus“, abate del monastero di San Benedetto di Scalocchio, con il consenso dei monaci concede le terre del monastero medesimo a tali “dominus Marsilius, Tobertus, Palmerius, Minella, Astancollu, Leonardus et Petrus”, consoli di Città di Castello, e al camerario per la pace e la guerra “Matheus” e l’anno successivo, nel 1209, cedette alla stessa città l’abbazia e il vicino castello di Scalocchio, in cambio della protezione militare.
Il territorio di Scalocchio fu da questo momento soggetto al controllo del Comune tifernate, come attestano diversi documenti conservati nell’archivio di quella città,tutelandosi così da eventuali atti di guerra di Città di Castello, che aveva esteso il suo dominio su vari castelli della regione, entrando però in contrasto con la vicina regione della Massa Trabaria retta da un legato pontificio della Sede Apostolica.
Coinvolta quindi nei contrasti che opponevano Città di Castello alla Massa Trabaria, la comunità monastica non esitò a schierarsi con una o con l’altra parte, a seconda delle circostanze.
Il coinvolgimento dei religiosi benedettini in tale contrasto emerge ancora da un documento del 21 marzo 1245, quando l’abate Giovanni si rifiutò di pagare l’annuo canone al Comune tifernate in virtù della sua dipendenza dai canonici di San Pietro di Roma: sempre nel 1245, l’abate si rifiutò ugualmente di prestare giuramento di obbedienza al legato pontificio della Massa Trabaria, argomentando che l’abbazia non faceva parte della suddetta provincia, ma dipendeva da San Pietro di Roma.
L’assoggettamento al Capitolo Vaticano era avvenuta spontaneamente da parte dell’Abate per sottrarsi al dominio del Vescovo di Città di Castello tanto che nel 1266 il Vescovo Nicolò I chiamò al sinodo l’Abate ma questo non si presentò allora gli fu intimata la scomunica se entro il periodo di tre mesi non avesse esibito il privilegio di esenzione.
Nel secolare conflitto che i tifernati, sino alla fine del ‘400, ebbero con la provincia massetana, sembra che, a seconda delle circostanze, l’abbazia si schierasse ora da una parte ora dall’altra, finché, nel 1398, il monastero fu distrutto dai Tifernati per potersene riappropriare alla morte del feudatario Brancaleoni Guelafucci.
Nel 1473, l’abate di San Benedetto di Scalocchio concesse ai Frati Minori un terreno nei pressi di Città di Castello, in località Santa Susanna, da destinare alla costruzione del convento di San Giovanni Battista, detto degli Zoccolanti.
Nel 1480 il monastero entrò in regime di commenda; il primo abate commendatario, il protonotario apostolico Ventura Bufalini, è attestato nel 1489.
Nella Visita Apostolica del 1571, il visitatore non trovò più nessun monaco ma soltanto un cappellano che vi era mantenuto dall’abate commendatario di allora.
L’ultimo abate commendatario fu mons. Enrico Orfei, già delegato apostolico di Ancona, nominato nel 1835.
Nel 1860, l’abbazia, come gli altri enti religiosi ed ecclesiastici, fu soppressa e i suoi beni furono indemaniati dallo Stato unitario.
 

Aspetto esterno

Dell’antico complesso abbaziale non si è conservato quasi nulla.
Fino al 2008 il complesso era in uno stato di completo abbandono e, in seguito ai numerosi crolli, era ridotto a rudere in seguito al crollo del tetto; della chiesa, restavano soltanto i muri perimetrali e il campanile a vela che sovrasta la facciata.
Gli stucchi e gli intonaci si erano staccati; alcuni elementi architettonici ornamentali e gli affreschi, tra i quali una Madonna con il Bambino e il Battesimo di Gesù, erano stati trafugati.
Gli edifici circostanti, tra cui il monastero e il mulino, avevano ugualmente subito il crollo dei solai e delle coperture, mentre del chiostro non rimaneva già alcuna traccia evidente seppur citato in molti documenti duecenteschi.
Nel 2008 la chiesa è stata restaurata dall’Istituto diocesano di Città di Castello e l’8 settembre 2012 è stata riaperta al culto.
Malgrado i notevoli rimaneggiamenti subiti in epoche successive, sono ancora visibili lungo alcuni tratti delle pareti laterali alcuni brani di un paramento murario a grossi conci ben squadrati, un portale in pietra tamponato e una monofora, probabilmente di epoca romanica.
Una scultura del secolo XV raffigurante San Sebastiano, proveniente dall’abbazia di Scalocchio, è conservata nel Museo del Duomo a Città di Castello.
 

Fonti documentative

L. Togni G. Farnedi – Monasteri Benedettini in Umbria; alle radici del paesaggio umbro – 2014
F. Guarino A. Melelli – Abbazie Benedettine in Umbria – Quattroemme 2008
Giuseppe Cappelletti – Le chiese d’Italia della loro origine sino ai nostri giorni Vol. 4
 

Mappa

Link coordinate: 43.592429 12.351135

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