Abbazia di San Pietro in Valle – Ferentillo (TR)

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La parte conventuale, non è visitabile, mentre l’Abbazia è fruibile attraverso una visita guidata munendosi di biglietto.

 

Cenni Storici

Probabilmente l’abbazia, oggi di aspetto prevalentemente romanico, è stata edificata sui resti di un precedente edificio, a sua volta costruito al di sopra di una più antica villa romana o, più probabilmente, di un santuario pagano.
Le sue origini vanno cercate nella leggenda, che a volte si intreccia con la storia e ne supplisce la carenza di informazioni documentate.
L’11 aprile del 491 d.C. si insediò sul trono dell’impero Anastasio I Dicoro, fedele all’eresia monofisita, fin qui è storia, a seguito di ciò, e qui inizia la leggenda che però probabilmente deriva da fatti realmente accaduti, ancorché non documentati da fonti, trecento monaci siriaci, per sfuggire alle persecuzioni, s’imbarcarono verso l’Italia.
Accolti qui da Papa Ormisda, con la sua autorizzazione si recarono ad evangelizzare popoli che vivevano sull’appennino umbro marchigiano e fra cui il cristianesimo non era ancora molto diffuso.
Fondarono eremi e abbazie lungo la via Flaminia o nei suoi pressi, tra i monaci più noti ricordiamo Spes, Eutizio, Fiorenzo, Isacco, Mauro e suo figlio Felice.
Fra gli eremiti che si stabilirono in Valnerina, meno noti dei sopra citati, ci furono Lazzaro e Giovanni, della cui vita poco si conosce.
Dopo aver predicato a lungo nello Spoletino, intorno al 535 decisero di stabilirsi in una grotta alle falde del monte Solenne, poco lontano dal fiume Nera, che solcava la valle.
Qui vissero in quiete e preghiera per decenni, finché, nel 575, Giovanni morì.
Resosi conto che, ormai ultraottantenne, non avrebbe più potuto badare da solo a sé stesso, Lazzaro pregò allora san Pietro di aiutarlo.
Secondo la leggenda l’apostolo apparve in sogno al fondatore del ducato longobardo di Spoleto, Faroaldo I, per invitarlo a cercare l’eremita e a costruire per lui un monastero nel quale pregare insieme ai suoi discepoli.
In breve tempo il nuovo centro religioso divenne un importante punto di riferimento per tutto il territorio.
Organizzata secondo la Regola benedettina, la comunità fu guidata per cinque anni dal santo eremita Lazzaro, ora divenuto abate, nel 580, alla sua morte il posto fu preso dal discepolo Giacomo.
I tre eremiti e il duca furono sepolti in altrettanti sarcofagi posti sotto l’altare della chiesa, ove un tempo sorgeva, con ogni probabilità, un’ara pagana.
Il complesso, ormai abitato da numerosi monaci, si legò sempre più ai duchi longobardi di Spoleto, che lo dotarono di beni e ne fecero un centro di potere di notevole importanza.
Nel 720 Faroaldo II rinunciò al trono ducale, forse deposto dal figlio Trasamondo II, che gli si era ribellato per la debolezza mostrata nei confronti della politica egemonica condottada re Liutprando in Italia centrale a scapito della secolare indipendenza del ducato.
Si fece monaco a San Pietro in Valle, restaurò e ampliò gli edifici e vi morì nel 728.
Sepolto anch’egli sotto l’altare della chiesa, è ora venerato come santo.
Trasamondo continuò ad opporsi a Liutprando, ne fu sconfitto e si rifugiò a Roma.
Liutprando nominò duca di Spoleto Ilderico, che commissionò la realizzazione del celeberrimo pluteo, una delle più famose opere d’arte longobarda, all’artigiano Urso, come si deduce dall’iscrizione dedicatoria.
Di lì a poco Trasamondo, tornato Liutprando a Pavia, in accordo col Papa ed il duca di Benevento, suoi alleati, rientrò a Spoleto ed uccise Ilderico.
Liutprando tornò a Spoleto, sconfiggendo di nuovo Trasamando, cui non restò che seguire il destino del padre, prese i voti e si ritirò anche lui nell’Abbazia di San Pietro in Valle.
Morto Liutprando Trasamondo tentò di recuperare il ducato, ma di lì a poco morì anche lui.
Nulla cambiò nei decenni seguenti, l’abbazia continuò ad ospitare duchi e potenti anche dopo l’avvento dei franchi e accrebbe la sua influenza e la sua ricchezza, come mostra un documento dell’840 nel quale Lotario, figlio di Carlo Magno, sottrasse i cospicui beni ai monaci per conferirli al vescovo Sigualdodi Spoleto, poi restituiti all’abbazia dal successore Luitario.
Verso la metà del IX secolo il ducato di Spoleto passò alla potentissima famiglia spoletina dei Guidoni, di origina franca, che aveva grandi ambizioni, ben superiori ai confini del ducato, Guido II, allora Duca di Spoleto attaccò i saraceni, che avevano conquistato Gaeta insidiavano addirittura Roma e li sbaragliò sul Garigliano.
Nell’896 Papa Formoso, che mal vedeva le mire egemoniche dei duchi spoletini, nominò imperatore Arnolfo di Carinzia, il quale scese in Italia Formoso e sconfisse pesantemente Lamberto, poi morto per una caduta da cavallo nell’898, poco dopo essere stato nuovamente nominato imperatore da papa Giovanni IX.
Tramontati i sogni imperiali e con essi declinata la potenza dei duchi spoletini, i saraceni ebbero mano libera per dedicarsi liberamente alle loro scorrerie.
Negli ultimi anni del IX secolo l’abbazia di San Pietro in Valle, fu presa, depredata e data alle fiamme, quindi fu abbandonatae rimase in rovina per un secolo.
Solo nel 996, l’imperatore Ottone III di Sassonia, diretto a Roma per cingere la corona imperiale, diede ordine di restaurare le chiese e i monasteri devastati dalle incursioni.
L’abbazia di Ferentillo riottenne così il pieno possesso dei propri beni e cospicui fondi per la ricostruzione, il monastero era così malridotto che l’abate Riutprando dovette far demolire buona parte della costruzione.
Durante i lavori furono rinvenuti, sotto l’altare, i corpi degli eremiti e di Faroaldo II e si provvide a dar loro nuove sepolture, dividendo i primi dal secondo.
La riedificazione procedette a rilento e, nel 1016, ilsuccessore di Ottone III, Enrico II, fece pervenire all’abate nuovi fondi per portare a termine il restauro.
Nei decenni successivi, l’abbazia tornò ad espandere i propri possedimenti giungendo fino all’alto Lazio e a Roma, finendo così per attirare l’attenzione dei vescovi spoletini, i quali cercarono a più riprese di assumerne il controllo.
Nel luglio del 1190, l’abate Transarico, con il consenso dei monaci e dei patroni dell’abbazia Berardo e Filippo Ancaiani, nonché di Ascaro di Gentile, signore di Ceselli cedeva ai consoli del comune di Spoleto i castelli fortificati che possedeva, mantenendovi la sola cura delle anime.
Nel 1202 Papa Innocenzo III intervenne per dirimere liti di confine tra l’abate e i signori di Arrone.
In quegli anni di rapporti intricati fra l’Impero ed il Papa il ducato di Spoleto passò diverse volte di mano, nel 1198 entrò a far parte dei possedimenti papali, poi tornò all’Impero e quindi entrò definitivamente a far parte dello stato pontificio nel 1230.
Con il passaggio del ducato di Spoleto allo Stato pontificio, l’abbazia passò sotto il controllo della basilica di San Giovanni in Laterano, a Roma, grazie al cui patrocinio furono intrapresi ulteriori restauri e forse in tale occasione fu realizzato il primo ciclo di affreschi della navata.
Le due torri di avvistamento già presenti, Matterella e Precetto, furono nello stesso periodo fortificate e dotate di cinta muraria, contestualmente l’aumento progressivo del traffico nel fondovalle comportò il graduale abbandono degli abitati in collina con lo sviluppo del borgo di Ferentillo intorno all’antica pieve di Santa Maria.
Nel maggio 1217 il comune di Spoleto dava in custodia all’abate la rocca di Precetto.
Nell’ottobre 1231 l’abbazia cedeva tutti i suoi possedimenti alla chiesa, giurando fedeltà a Papa Gregorio IX; facevano parte, all’epoca, del patrimonio i castelli di Macenano, Ginestra, Terria, Porcile, Sambucheto, Monte San Vito, Villa San Vito, Gabbio, Matterella, Precetto, Monterivoso, Castellone, Colle Olivo, Castellone.
Nel 1234 San Pietro fu affidata all’abbazia di Chiaravalle di Fiastra, di obbedienza cistercense: scelta che segnò l’inizio di un lungo periodo di decadenza.
Nel 1247 il Cardinale legato Raniero Capocci ne conferma il possesso al Comune di Spoleto, nel 1259 il rettore del ducato conferma tale cessione.
Il 3 agosto 1303, papa Bonifacio VIII a causa della vita non proprio irreprensibile condotta dai monaci, l’assegnò in via definitiva al Capitolo Lateranense.
Il giuramento di obbedienza avvenne però, l’anno successivo, nelle mani del Podestà del comune di Spoleto, che continuava a mantenervi dei diritti e a nominarvi un vicario.
Però dal 1305 il vicario non è più spoletino, anche se per tutto il XIV secolo l’Abbazia continuò a presentare il palio per la festa dell’Assunta, simbolo di sottomissione alla città ducale.
Nel 1395 però i Ferentillesi si ribellarono a Spoleto, attaccando Montefranco, subendo poi la reazione degli Spoletini, che occuparono i territori dell’Abbazia e San Mamiliano.
Nel 1407 il comune di Spoleto deliberò di acquistare l’intero feudo dal Capitolo Lateranense e nel 1415 compose il dissidio con Ferentillo, affidando per un breve periodo la difesa delle rocche di Matterella e Precetto a Ugolino de’ Trinci.
Ma già l’anno successivo, non potendo difenderle dagli assalti di Braccio da Montone, le fece smantellare.
Nel 1474 il dominio dell’abbazia fu concesso da Sisto IV al nipote Bartolomeo della Rovere, da cui i ternani tentarono di acquistarlo offrendo 6.500 scudi.
Nel 1477 l’Abbazia fu data in commenda alla famiglia Ancaiani di Spoleto.
Gli Spoletini poi invasero il territorio di Ferentillo, che era tornata a molestare la fedele Montefranco, e nel 1499 combatterono nuovamente i ferentillesi, ora alleati ai ternani.
Nel 1504 Giulio II restituì il possesso dell’abbazia al Capitolo lateranense, che nel 1517 ne conferì la giurisdizione civile a Franceschetto Cybo, principe di Ferentillo, di lì a poco morto d’indigestione a un pranzo offerto dal re di Tunisi Mulah Mohammed.
In seguito l’abbazia passò sotto il controllo della famiglia Ancaiani, da sempre legati alla sua storia, che la tennero come commenda fino al 1850, quando ne divennero proprietari.
Agli inizi del secolo scorso l’ultima discendente degli Ancajani cedette la chiesetta al parroco di Ferentillo e vendette il convento a Ermete Costanzi.
Oggi la famiglia Costanzi, attuale proprietaria del sito, dopo un intervento di ristrutturazione ultimato nel 1998, ha trasformatoil complesso in una raffinata residenza d’epoca.
 

Aspetto esterno

Della prima costruzione del VI – VIII secolo, a croce patibulata con una grande aula longitudinale, forse provvista di due piccole navate laterali, oggi rimane la zona del transetto e delle tre absidi.
Saccheggiato dai Saraceni alla fine del IX secolo, il complesso era ridotto a poco più di un rudere quando, un secolo dopo, fu iniziato il restauro ed è stata ricostruita mantenendo tutta l’area absidale e del transetto ed allungando l’unica navata centrale secondo modelli in vigore Oltralpe nella seconda metà del Mille.
A questa età risalgono anche le sculture dei santi Pietro e Paolo che ornano il portale sud dell’edificio.
La chiesa è orientata in modo classico da ovest a est, l’attuale facciata a capanna, con oculo e portale rinascimentali, rivolta verso l’antico accesso da Spoleto, risale alla fine del Quattrocento, fatta edificare dall’abate Dario Ancajani (1478-1503), fu ricostruito anche il portale con architrave sostenuto da piedritti aventi basi e mensole sporgenti, sormontato da lunetta un tempo dipinta dalla scuola de Lo Spagna con una Pietà tra San Pietro e San Paolo, come nella lunetta del chiostro.
In alto fu aperto un oculo scolpito, a cornici rinascimentali modanate, sormontato dallo stemma di famiglia dell’Abbate.
Il possente campanile a quattro ordini è databile alla fine del secolo XI è esternamente ornato con inserti scultorei di reimpiego di origine romana, longobarda e carolingia.
Il Chiostro è databile al XII secolo delimitato da un quadriportico a due ordini di colonne con al centro un cippo funerario pagano decorato con satiri e menadi.
 
 
 

Interno

L’interno, è ad aula unica, che si restringe verso il transetto rialzato concluso da tre absidi.
L’avancorpo, prima dell’abside centrale, è coperto da una volta a botte nei bracci del transetto e a crociera nella zona mediana dominata dal tiburio quadrangolare.
Due colonne alte circa un metro, forse resti dell’antica abbazia, posizionate appena dopo all’ingresso lungo un solco delimitavano l’accesso delle persone non battezzate dalle battezzate, che si posizionavano nella parte centrale della chiesa, a loro volta separate dal clero, cui era riservata l’area presbiteriale.
L’abside, forse unica parte architettonica rimasta in piedi dell’edificio longobardo, presenta in cima ai pilastri dei capitelli corinzi romani reimpiegati ed altre parti architettoniche appartenute di certo ad un edificio romano preesistente la chiesa.
Oggi l’interno si presenta spoglio di arredi ma ricchissimo di interessanti ed antiche testimonianze artistiche.
Tra gli elementi più notevoli vi sono testimonianze romane e longobarde murate in una sorta di lapidario sulle pareti, interessanti altresì i tanti sarcofaghi riconducibili all’epoca Romana ivi conservati.
A sinistra, andando verso l’altare, si trova un sarcofago privo di decorazioni con cuscino cefalico, ove era poggiata la testa del defunto, risale al III – IV sec. d. C..
Poi ve n’è uno in cattivo stato di conservazione, ove sul fronte vi sono tre barche guidate da un amorino e da una psiche danzante, simbolismo del viaggio nell’Aldilà, tipica allegoria del rituale funebre di età romana.
Sempre a sinistra, nell’abside si trova l’altare che, secondo la tradizione, conserva i corpi dei fondatori, i Santi Lazzaro e Giovanni, è composto da un sarcofago e un coperchio di diversa provenienza.
Il sarcofago, di tipo strigilato, presenta sul fronte il ritratto del defunto tra due cornucopie.
Il coperchio presenta al centro il ritratto del defunto con rotulus sorretto da due vittorie alate, con a destra una scena di banchetto e a sinistra una scena di caccia.
La singolare posizione dell’altare forma una sorta di angusto ambulacro, circuito rituale di purificazione che percorrevano i pellegrini devoti ai due Santi Eremiti, che ricorda vagamente i deambulatori delle cripte semi-anulari di alcune basiliche paleocristiane, ove venivano venerate le reliquie dei martiri.
Sul lato destro dell’altare è stata praticata una piccola apertura, protetta da una grata di ferro, la finestrella confessionis, attraverso la quale erano visibili le reliquie dei santi monaci.
L’altare principale è costruito utilizzando due lastre scolpite a bassorilievo di epoca longobarda, che forse originariamente fungevano da divisorio.
Su quella che è fronte dell’altare sui margini superiore e sinistro si legge una scritta in lingua latina: “HILDERICVS DAGILEOPA + INHONORE(m) / S(an)C(t)I PETRI ETAMORE S(an)C(t)I LEO(nis) / ET S(an)C(t)I GRIGORII / PRO REMEDIO A(ni)M(ae)”, tradotta “Ilderico Dagileopa, in onore a san Pietro e per amore di san Leone e san Gregorio, per la salvezza dell’anima“.
Si tratta quindi del pluteo del duca Ilderico Dagileopa, che, come detto, resse il ducato di Spoleto tra il 739e il 742 circa.
Decorata con motivi a girandola e a rosa (probabili simbolisolari), la lastra presenta, al centro, ai piedi di tre croci due figure maschili barbute, con copricapo aureolato e tunica in atteggiamento orante e con le braccia alzate.
Forse raffigurano a sinistra l’esecutore Urso, che si ritrae con lo scalpello in mano e firma orgogliosamente l’opera con la scritta VRSVS MAGESTER FECIT, a destra il committente della lastra, il duca Ilderico.
Secondo un’altra ipotesi, oggi più accreditata, anche la figura di sinistra rappresenta il duca Ilderico con in mano non uno scalpello ma lo scramasax, classico attributo militare longobardo, nella seconda il duca, spogliatosi dall’arma, riceve il battesimo, come testimoniato dalle due colombe e dalla coppa poste proprio sopra la sua testa, e si fa monaco.
Questo di San Pietro in Valle è uno dei rarissimi casi, nell’arte medioevale, in cui l’artefice firma la sua opera.
La lastra posteriore è interamente decorata con elementi tipici longobardi come i fiori a sei petali, le fuserole le cornici, gli intrecci di foglie e le fibbie.
Del ciborio, che doveva trovarsi sopra l’altare, resta solo qualche frammento arcuato.
A destra dell’altare un’altra urna romana in alabastro secondo la tradizione racchiude il corpo di Faroaldo II.
Il sarcofago presenta sul fronte scene dionisiache partite da un portico a cinque archi scandito da colonnine tortili.
Da sinistra vi sono raffigurati il Dio Pan con la cesta mistica, un Sileno, un Satiro, Dioniso, una Menade e ancora un Satiro; sui lati due grifoni alati.
A destra della tomba di Faroaldo II vi è un altro sarcofago di tipo strigilato con al centro della fronte raffigurati Amore e Psiche e sugli angoli due amorini assorti con le fiaccole capovolte.
Forse fu il sarcofago del duca Ilderico Dagileopa, poi utilizzato per racchiudere i resti degli Ancaiani.
Lungo la chiesa al lato destro un’altra urna con una superficie frontale molto affollata sulla quale è rappresentata una scena di caccia al cinghiale e all’antilope.
A destra dell’ingresso è presente un Thesauros, cippo votivo pagano con incisi i nomi di CRASTINUS PAULUS e TITTIENO MACRO della tribù Quirina.
Secondo la leggenda è stato utilizzato come base per il primo altare dei Santi eremiti Lazzaro e Giovanni.
Parimenti interessante è la decorazione pittorica.
L’imponente ciclo di affreschi del XII secolo raffigura scene dell’Antico Testamento, a sinistra e del Nuovo, a destra.
Disposte su tre diversi registri delimitati da finte architetture, le scene furono eseguite da due artisti sconosciuti in due tempi diversi: dapprima l’Antico, poi il Nuovo Testamento.
Probabilmente sono gli affreschi romanici più antichi dell’Umbria, dovrebbero essere stati eseguiti nell’arco della seconda metà del secolo XI; per la prima volta qui si vedono movimento, prospettiva e naturalismo, con superamento dello staticismo bizantino e abolizione delle proporzioni gerarchiche.
Il ciclo fu riscoperto e liberato dalla scialbatura nel 1869, le scene dell’Antico Testamento, sono quasi tutte abbastanza ben conservate, mentre sono perdute le prime del Nuovo.
Si svolgono sulle pareti della chiesa come in una finta galleria, in tre registri, di quadri inclusi in una finta architettura, di colonne su stilobati in tentata prospettiva di sporgenza su beccatelli.
Sotto ogni colonna la fascia aggetta ad angolo per creare l’illusione del maggior rilievo.
Lo zoccolo inferiore era adorno di specchi marmorizzati, disegni a ferrate, clipei, ecc.
In alto, sotto il tetto corre una finta trabeazione architettonica a mensole affogliate alternate a lacunari ornati di grifi, pesci, uccelli, che crea l’illusione di sporgere da una fascia a girali di recami e foglie d’acanto.
Sulla parete sinistra, inserite tra cinque finestre, nel registro superiore si susseguono la Creazione del Mondo, la Creazione di Adamo, la Creazione di Eva, Adamo dà il nome agli animali, il Peccato originale, l’Ammonimento e la Cacciata dal Paradiso, segue una raffigurazione non più leggibile in cui si scorgono unicamente un paio di ali.
Il registro intermedio inizia con il Sacrificio di Caino e Abele, poi l’Uccisione di Abele, Noè chiamato da Dio, la Costruzione dell’arca, Noè nell’arca, l’ospitalità di Abramo, il Sacrificio di Isacco, Isacco manda Esau a prendere cibo e l’Inganno di Giacobbe, segue una scena indecifrabile.
Il registro inferiore si presenta più danneggiato, della prima scena rimane uno sfondo architettonico in cui era probabilmente raffigurato il Sogno di Giuseppe, dopo una scena perduta si vedono Giuseppe e i fratelli, quindi seguivano tre scene in parte degradate e in parte coperte da successivi affreschi votivi, rimane solo un frammento raffigurante il volto di un Angelo.
Nella parete opposta, a partire dall’arco trionfale si snodano le scene del Nuovo Testamento, separate da sette finestre.
Si inizia con i profeti Samuele e Daniele, un frammento con la parte inferiore di due figure, probabilmente altri Profeti, due Angeli, una Maiestas Domini quasi interamente perduta, ancora due Angeli, poi una scena lacunosa con altri due Profeti, una testa, probabilmente di un Profeta.
Nel registro intermedio sono raffigurate scene cristologiche, dopo una vasta lacuna si ammira l’Annuncio ai pastori, poi l’Apparizione della cometa ai Magi, l’Adorazione dei Magi, il Ritorno dei Magi, la Strage degli Innocenti, il Battesimo di Cristo e le Nozze di Cana.
Della prima scena al registro inferiore si scorge unicamente la testa di una pecora, forse vi era raffigurato il Buon Pastore, dopo una scena illeggibile segue una Moltiplicazione dei Pani molto frammentaria, quindi l’Ingresso a Gerusalemme, l’Ultima Cena, la Lavanda dei Piedi e la Salita al Calvario.
All’interno della chiesa si trovano numerosi altri affreschi, votivi o decorativi, di notevole interesse.
A sinistra dell’ingresso, sulla controfacciata, San Sebastiano e Madonna col Bambino, adiacente un San Matteo Apostolo.
Sotto si legge la scritta QUESTA F(ECE) F(ARE) MARIA DE JOHANNE E QUESTO SANTO SAVERIO HA F(ATTO) F(ARE) PER VOTO A.D. 1526.
Sono opera di un seguace dello Spagna probabilmente Giovanni di Girolamo Brunotti.
Poi c’è un affresco staccato, era ubicato presso una stanza demolita durante i restauri degli anni ’30. Rappresenta un Cristo crocefisso attorniato da San Benedetto, Sant’Onofrio, la Maddalena, San Giovanni Apostolo e Santa Scolastica.
Dall’iscrizione frammentaria si deduce che fu un Ancaiani a commissionar l’affresco, datato intorno al 1470.
A seguire tre affreschi che hanno distrutto parte del registro inferiore del Vecchio Testamento, Sant’Antonio da Padova, col cuore e il fuoco nelle mani, un santo e, molto danneggiato, Madonna col Bambino tra i santi Paolo (?) e Pietro.
L’abside laterale sinistra accoglie un affresco datato 1452 raffigurante la Madonna in trono col Bambino coronata da angeli, a destra San Pietro.
A sinistra in basso una testa di santo, forse Santo Stefano, messo in luce da un distacco di intonaco e pertinente a uno strato più antico appare come innestata sul corpo di un monaco defunto.
Al di sotto, si trova un affresco trecentesco molto danneggiato: raffigura la scena dell’incontro di Faroaldo con l’eremita Lazzaro da cui ebbe origine il monastero.
A sinistra dell’altare un piccolo affresco del XVII secolo raffigura la scena del Sogno di Faroaldo, con il Duca addormentato sotto una tenda e quattro soldati longobardi che giocano a dadi attorno a un tavolo.
Intorno affreschi danneggiati di difficile lettura.
Sul pilastro San Bernardino da Siena, sull’altra faccia, in un tondo, una Santa Monaca.
Nel contiguo pilastro San Paolo sulla faccia rivolta verso la navata, San Lazzaro Abbate di San Pietro sull’altra.
Il Maestro di Eggi, probabilmente intorno al 1445, ha affrescato il catino absidale raffigurando il Cristo Benedicente attorniato dagli angeli; nel tamburo, al registro superiore Madonna in Trono col Bambino tra due Angeli, circondata da figure di apostoli, a sinistra della Vergine si riconosce San Pietro, a destra San Paolo; nel registro inferiore assiso al centro è San Benedetto, a sinistra San Marziale, Sant’Eleuterio, San Lazzaro, San Placido, a destra San Mauro, San Giovanni, identificabile grazie all’iscrizione sottostante, e altri due non riconoscibili.
Sull’arco interno dell’antecoro si trovano gli affreschi più antichi della chiesa, probabilmente risalenti alla ricostruzione ottoniana, figure stilizzate della Madonna con ai lati quattro sante, a sinistra Santa Lucina, matrona romana, l’ebraica Sel Sabee (Betsabea ? Elisabetta?), a destra Santa Cecilia (?) e Santa Caterina.
Nel pilastro di destra è raffigurata Santa Scolastica, si legge la data 1425, a lato San Benedetto, sul contiguo tre santi racchiusi in tondi, sopra il sarcofago c’è un dipinto raffigurante San Pietro che consegna le chiavi ad un frate inginocchiato, con ogni probabilità lo stesso Faroaldo.
Nell’abside laterale destra vi è un affresco databile agli inizi del XIV secolo, di un interessante pittore pregiottesco, che mostra affinità con la bottega del Maestro di Sant’Alò pur serbando traccia di una cultura più arcaizzante, raffigurante una Madonna in trono col Bambino fra i santi Michele e Gabriele con l’abate committente inginocchiato in preghiera.
Nel muro sopra il sarcofago di Amore e Psiche sono effigiati in due clipei rotondi due degli abbati della famiglia Ancaiani, alla destra del sarcofago ritratto di Decio Ancaiani.
Sull’arco trionfale, ornato da una fascia floreale sono raffigurati i sette candelabri, disposti simmetricamente ai lati di un clipeo vuoto.
Nel sottarco, entro un clipeo al centro di un motivo a meandri è la mano dell’Eterno benedicente.
Nel piedritto destro sono raffigurati due santi, sulla faccia che dà verso il centro della navata un Santo senza volto e San Pietro benedicente, anch’esso privo di volto.
La decorazione dell’arco trionfale è conclusa da due colonne sovrapposte, una a finti marmi, l’altra a tortiglione, che fungono da illusionistico sostegno alla reale imposta dell’arco.
Sulla parete a destra antistante la facciata è affrescato, in una nicchia, il Volto di Cristo.
Sulla parete destra, appena dopo l’arco trionfale una tela posta sopra un altare raffigura la Madonna del Rosario.
Proseguendo, sempre sulla parete destra si incontra un palinsesto di affreschi.
Il più recente, non compiuto, raffigura San Pietro, vi si legge la data MCCCCCXII.., ha parzialmente coperto un affresco posto poco più in alto ove la Madonna in trono col Bambino è contornata dai santi Pietro e Paolo, databile alla prima metà del secolo XV.
Ancora a destra, coevo del precedente e probabile opera del Maestro di Eggi è Santa Caterina d’Alessandria.
Sulla controfacciata destra un piccolo affresco raffigura un santo cistercense, probabilmente San Bernardo, segue una Madonna Lauretana col Bambino in trono attorniata da sei angeli; reca la data MDXIII.
La pavimentazione è per due terzi costituita da un litostrato pertinente alla costruzione Ottoniana, il terzo prossimo al presbiterio è formato da lastroni di grandi dimensioni, probabilmente è quella dell’edificio romano originario.
Da quel che rimane della pavimentazione dell’abside se ne deduce che doveva essere completamente coperta da un mosaico realizzato con tessere, pietre e marmi romani di reimpiego.
Il mosaico rappresentava una croce a intreccio, decorata da pietre colorate con un motivo molto simile alle crocette auree longobarde.
Nella chiesa era presente una tela dello Spagna, L’Adorazione dei Magi, nota anche come Natività Ancaiani, fatta eseguire dall’abate don Eusebio Ancaiani, poi trasferita a decorare la cappella di famiglia a Spoleto, quindi, dopo un soggiorno romano venduta nel 1833 ai musei statali di Berlino, ove ora si trova.
 
 
 

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Il Monastero

Si accede al monastero tramite il corpo di guardia, all’interno del quale si trovavano un magazzino, un salone dove venivano rifocillati i pellegrini, e l’alloggio del Padre Guardiano, attualmente adibito a reception della struttura ricettiva.
Oltrepassato il corpo di guardia si accede al giardino panoramico, dove avveniva il mercato, con monaci e pellegrini che si scambiavano merci.
Attraverso un arco si accede poi ad un incantevole chiostrino, dove è posto lo stemma della nobile famiglia spoletina degli Ancaiani, precedente proprietaria dell’abbazia, e, sopra l’arco di accesso al chiostro, un affresco con Cristo tra due Santi.
Qui era situata la vera e propria foresteria, su due piani erano situate camere e un salone dove i monaci davano ricovero ai pellegrini.
È confinante su un lato con l’abside della chiesa, sul lato opposto sono presenti un pozzo ed una ripida scalinata sorretta da massicci pilastri.
Attraverso un passaggio si arriva all’incantevole chiostro, su tre lati ornato di colonne, sul quarto due scalinate simmetriche che portano al primo piano.
Il colonnato del primo piano, più snello e leggero, è stato probabilmente realizzato in un secondo tempo.
Nel loggiato al primo piano è presente un affresco rappresentante lo stemma della famiglia Ancajani, un leone rampante, più resti non leggibili di altri affreschi.
Nell’architrave della porta di una stanza collegata con il refettorio, probabilmente l’antica cucina, sono stati incisi dei segni, presumibilmente rappresentanti la passione di Cristo.
Le stanze sono ricavate dalle celle dei monaci, c’è anche quella dell’Abate, più ampia, con un caminetto al suo interno.
Nella sala lettura è presente un affresco con scene della vita di San Francesco, ed in una stanza una “lapide” dipinta sul muro, sono le tracce lasciate nel 1955 dal set di “Marcellino pane e vino“.
Al centro del chiostro vi è un cippo funerario pagano decorato con satiri e menadi, immagini scalpellinate dai monaci dopo il suo riutilizzo.
Sul lato adiacente alla chiesa è stata posta una meridiana, presumibilmente spostata durante i restauri degli anni ’30.
Sul chiostro si affaccia la porta tramite la quale i monaci accedevano alla chiesa, ed è da questa, con ai lati due altorilievi risalenti, probabilmente, all’XI secolo, raffiguranti San Pietro e San Paolo, una volta probabilmente policromi.
Nelle immediate vicinanze dell’Abbazia si trovano numerose grotte, alcune con la presenza di manufatti, forse resti di antichi insediamenti eremitici, adiacenti alla chiesa, sulla sinistra, vi sono resti di antichi ambienti semi-sommersi dalla vegetazione e ancora non convenientemente esplorati, forse l’affascinante storia di questo luogo non la si è ancora finita di scrivere.
 

Fonti documentative

BORSELLINO, E. L’abazia (sic) di San Pietro in Valle presso Ferentillo, Spoleto 1974
DELL’ACQUA FRANCESCA, Ursus «magester»: uno scultore dietà longobarda, in Enrico Castelnuovo, «Artifex bonus». Ilmondo dell’artista medievale, Laterza, Roma-Bari 2004
FABBI ANSANO. Guida della Valnerina: storia e arte / Abeto (PG), presso l’autore, 1977
FABBI ANSANO Abbazia di S. Pietro in Valle a Ferentillo, Abeto (PG), presso l’autore, 1972.
FABBI ANSANOStoria dei comuni della Valnerina / Abeto (PG), presso l’autore, 1976
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Nota

La galleria fotografica è di Alberto Monti e Silvio Sorcini, il testo è di Silvio Sorcini.
 

Nota di ringraziamento

Si ringrazia Sebastiano Torlini per le preziose indicazioni fornite
Si ringrazia la Biblioteca Comunale G. Carducci di Spoleto per la competenza e la cortesia mostrate
 

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