Abbazia di Santa Maria in Rotis – Matelica (MC)


 

Cenni Storici

Lungo la strada provinciale asfaltata che da Matelica (Macerata) porta al monte San Vicino (m.1479) ,dopo la località Casette San Domenico e Piannè, denominata un tempo un Pian Dei, si incontra l’antica frazione di Braccano. Attraversato il grazioso paese ,procedendo a destra di un bivio che sale verso le località di S. Anna e Vinano , si vede una biforcazione che scende verso una strada ancora interna costeggia un gruppo di case, ancor oggi indicate dagli abitanti con l’espressione “L’America“.
Procedendo ancora oltre, attraverso una strada interrata (o di terra battuta), si va verso la zona in cui, già più di sette secoli or sono, sorgeva l’antico monastero benedettino di Santa Maria de Rotis, a poca distanza da una zona denominata la valle Jana, lontana da strade di transito e completamente racchiusa da un cerchio di monti. Il M. Canfaito, il M. Pagliano e il M. Argentaro che il popolo ritiene sede di antiche miniere, serrano la valle ad est e a sud, il M. Mondubbio ad ovest.
L’ordine religioso dei Benedettini s’insediò nella zona già intorno all’ XI, XII secolo, e già nel IX secolo si hanno documenti di donazioni a monaci farfensi che cercarono di sfuggire alle invasioni ricorrenti tra le colline e le montagne dell’Appennino.
Lo storico Ottavio Turchi, nella chiesa di Camerino, testo edito nel 1762,alla pagina 134, ricorda che i monaci seguaci di San Benedetto di Norcia nel Medio Evo si stabilirono a Santa Maria de Rotis, presso Braccano, nel territorio matelicese, oltre che nel territorio d’Esanatoglia, ove fu fiorente San Michele infra Ostia.
Il primo documento relativo all’abbazia risale al 1195, vi compare il nome dell’abate Ubaldo, ma in quell’epoca il monastero era ormai fiorente e affermato.
Molti nella valle dell’Esino e lungo le dorsali montuose del San Vicino e del monte Gemmo, furono, già nell’alto medio evo gli insediamenti eremitici e monastici (eremitani agostiniani, benedettini).
Dopo il XII secolo fiorirono anche i conventi francescani e domenicani, dopo il 1600 si aggiunsero quelli dei Gesuiti e dei Filippini, oltre che quelli dei teresiani .Un discorso a sé meritano gli ordini dei Gerosolimitani e dei Cavalieri di Malta.
Pergamene risalenti al XII secolo indicano che sotto la sua giurisdizione erano i monasteri di San Claudio d’Acquaviva ,San Giovanni de Foro, San Giacomo, inoltre si sa per certo che nel XIV secolo gran parte dei molini lungo l’Esino appartenevano ancora all’abbazia benedettina.
Una stele, proveniente probabilmente da tale luogo, si può ammirare sopra la porta interna della chiesa di San Francesco di Matelica, in alto a destra.
E’ in pietra calcarea, rappresenta una figura di orante (colui che prega),rivestito di un abito che somiglia ad una pianeta, e vi si legge “Dopni Lapi“.
Secondo l’Acquacotta indicherebbe un abate di Roti e risalirebbe al XIII secolo. Altri frammenti architettonici sono presenti in ciò che rimane del Monastero, tappa nel Medio Evo di pellegrinaggio e punto d’unione delle strade che portavano a Matelica ,collegandola a Cingoli , per poi scendere a valle fino a raggiungere Jesi e la costa adriatica.
Si tratta di sculture, che gli studiosi definiscono arcaiche, realizzate su massi squadrati rozzamente, rappresentanti geometriche sembianze umane il cui volto vede il tratto degli occhi, la traccia del naso con due segnate narici schiacciate e ,trasversali, le linee che potrebbero indicare la barba nella parte bassa del volto. Ai lati sporgono le orecchie, quasi mezzelune.
Il luogo in cui si trova il monastero è ameno e rappresenta un inno alla bellezza della natura. Camillo Acquacotta, nelle memorie di Matelica (1838), parlando del Medioevo ,ricorda che, tra i Monasteri “sparsi nel territorio” si trovava quello di Santa Maria de Rotis.
All’anno 1210 risalgono testimonianze di quattro contratti di enfiteusi, stilati “in claustro Roti” è abate “Dominus Ubaldus abbas monasterii Roti” che agisce “cum consensu et voluntate monacorum suorum“, gli succederà “Dominus Bonomus“.
Doveva essere fiorente nel 1311 se gente di Matelica, Jesi e Cingoli, comuni ghibellini alleati, assaltò il monastero, né asportò preziose suppellettili e arredi sacri.
Nel corso di una terribile carestia i monaci non esitarono a nascondere “le biade” che i fondi davano per sfamare la popolazione, suscitando la reazione del Vescovo Rambottto di Camerino (Matelica fino al 1785 ha fatto parte di quella Diocesi per essere poi accorpata a quella di Fabriano) che segnala il fatto “deprecabile” al podestà di Matelica
E’ merito di Giovan Battista Razzanti (XVIII sec.) se possiamo disporre di una dettagliata storia del monastero benedettino, preziose sono le sue Memorie manoscritte conservate nell’archivio storico comunale della città di Matelica.
Alla fine del 1400 (ma forse è il caso di ricordare che dopo il 1453 e la conquista turca di Costantinopoli grande fu l’afflusso dei profughi verso l’Italia) ne fu abate commendatario Bartolomeo Colonna da Chio.
A lui si devono molte importanti iniziative: la costruzione del campanile (1475) di Santa Maria della Piazza, oggi concattedrale col nome di Santa Maria Assunta, nel cuore del centro storico di Matelica, ad opera di maestri della muratura provenienti dalla Lombardia, e tre anni prima ,nel 1472 ,la stampa a caratteri mobili di una Vita della Vergine Maria di Antonio Cornazzano, conservata ora alla Biblioteca Ambrosiana di Milano. Si tratta di un prezioso incunabolo, è tra le prime opere stampate a caratteri mobili nel centro Italia e forse in tutta la penisola.
Questo personaggio, a cui si deve anche la redazione del testamento di Alessandro Ottoni, uno dei maggiori esponenti della famiglia di conti che governò Matelica, era originario dell’isola di Chio, in cui era fiorente la presenza dei Genovesi che erano i maggiori esperti di un prodotto come l’allume, utilizzato nella lavorazione dei panni e nella tintura dei cuoi, che da tali zone affluiva ai mercati europei.
E forse esiste un rapporto tra questa realtà e il fatto che la città di Matelica fosse già fiorente produttrice di panni di lana e di cuoi.
A lui è attribuita una mappa dell’isola di Creta. Venne in Italia, fu copista alla Biblioteca Vaticana, prima che gli fosse affidato l’incarico nel monastero benedettino di Roti.
Molti atti notarili conservati nell’archivio storico di Macerata, sezione di Camerino, ne confermano la presenza e l’attività.
Purtroppo, a causa di un incendio, è andato perduto il patrimonio documentario delle pergamene e degli scritti del Monastero che avrebbe potuto offrire altre preziose notizie. Qualche notizia ,circa la fiorente vita della Abbazia, si ricava da un documento conservato nell’archivio comunale di Matelica, relativo all’anno 1500.
Si tratta degli atti di un Processo tra la stessa e la Comunità di Matelica per il possesso di alcuni boschi (De Monte de Pagliano prope Abbatiam de Roti qua itur Cingulum). La zona è descritta come ricca di legname, infatti, fino a pochi decenni fa, vi si trovavano numerose carbonaie.
Nell’anno 1585 vi si producevano sessanta some di frumento, sette di vino, il taglio del bosco fruttava dodici scudi. Il Monastero di Roti, fino al 1700, è stata meta di grandi festeggiamenti in onore della Vergine, il 15 agosto, essendo la Chiesa intitolata, come è confermato da documenti del 1600, a Santa Maria delle Grazie, titolo che ora è proprio della Chiesa di Braccano, dove si trova un’antica statua lignea della Vergine con il Bambino, recentemente restaurata, forse collegata alla vita dello stesso Monastero.
Nell’archivio parrocchiale di Matelica, che conserva i registri della Amministrazione di Santa Maria della Piazza di Matelica, in passato dipendente da quel monastero, poi divenuta Collegiata ed ora Concattedrale con il nome di Santa Maria Assunta, si registrano spese a favore della festa che vi si svolgeva ogni anno, in onore della Vergine Maria, con grande afflusso di popolo e con impiego di somme anche superiori a quelle fissate per la festa del Patrono Sant’Adriano, festeggiato il 16 settembre, il giorno successivo si tiene una grande fiera che anticamente durava un’intera settimana.
Si fa notare che nel XV secolo l’abbazia fu data in mano agli abati commendatari e definitivamente, nel XVI secolo i suoi beni furono assegnati proprio al Capitolo della suddetta Collegiata di S. Maria della Piazza, chiesa urbana che come suddetto un tempo era soggetta all’abbazia, ciò sta a dimostrare che a Roti era ormai esaurita ogni presenza monastica, anche se la chiesa era officiata «pro devotione et commoditate laboratorum» a dimostrazione quindi che le terre erano ancora coltivate e gli edifici abitati dai coloni fin negli ultimi anni del ‘500.
 

Aspetto attuale

Si stanno studiando iniziative interessanti che potrebbero favorire un utilizzo del Monastero per attività compatibili con l’importanza storica, artistica e paesaggistica del sito.
L’edificio è ridotto in pessimo stato da crolli e vandalismi, con gli edifici dell’abbazia ridotti a stalla per ovini, i muri sbrecciati e le candide pietre degli archi sparse tra i rovi.
La struttura si presenta a quadrilatero ed è cresciuta con il tempo, ma del nucleo più antico resiste solo parte della chiesa, con la bella monofora che taglia la facciata, in particolare i resti della cripta che mostra le fondazioni di un’abside semicircolare.
La zona, anni fa di proprietà privata, è oggi di proprietà della Regione Marche ed è sotto la tutela del Corpo Forestale dello Stato. Del monastero hanno scritto autorevoli studiosi come Gian Battista Razzanti (XVIII sec.), per cui è esistente fin dall’XI secolo “sotto la regola di San Benedetto e poi riformato da San Romualdo”, Camillo Acquacotta (XIX sec.),e più recentemente, Giacinto Pagnani, Amedeo Bricchi, Angelo Antonelli (accuratissime le sue ricerche specifiche) e Anna Maria Giorgi e molti altri esperti.
 

Mappa

Link coordinate: 43.287797 13.073799

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