Carbonaia Bozzi Mario – Cessapalombo (MC)

Cenni Storici

Come nacque la Carbonaia coperta
Quinto Maurizi nato il 4 aprile 1914, questo grande personaggio è stato il promotore della carbonaia chiusa, cioè quella carbonaia molto diffusa nella zona di Col di Pietra, Villa, Valle e Montalto in Comune di Cessapalombo (MC). Circa nel 1965 trovandosi a fare carbonaie nella zona della Gola del fiume Fiastrone e precisamente in un luogo chiamato “Bucossi”, non lungi dalla Grotta dei Frati, il signor Quinto Maurizi per ripararsi dalle intemperie: vento, neve, grandine e tutte le avversità metereologiche che ci sono in queste montagne, decise di coprire in modo rudimentale, la Carbonaia. Dapprima la copertura era composta solamente da quattro pali in legno, probabilmente Leccio, coperti da una lamiera (ondulina) e tutto attorno alla Carbonaia delle frasche (rami di alberi) intrecciate che riparavano la stessa dal vento per evitare una “N’Cotta” non buona e quindi carbone di scarsa qualità o addirittura la perdita della stessa “N’Cotta”. Quinto, vista la vicinanza con il luogo della piazza della Carbonaia, tutti i giorni e più volte al giorno faceva il pendolare da casa sua (a Villa di Montalto) alla Carbonaia percorrendo circa 2 chilometri a piedi. Questa vicinanza gli permetteva di gestire tutte le varie fasi della Carbonaia direttamente da casa e quindi la “Spiazza” non era provvista di capanno per la sorveglianza diretta della Carbonaia anche di notte e in qualsiasi periodo dell’anno. Dopo circa 10 anni, visti i continui sopralluoghi della Forestale e le continue pressioni della stessa sulla pericolosità della recinzione con frasche che avrebbero potuto prendere fuoco in caso di raffiche di vento forte, Quinto decise di recintare lo scheletro della copertura con lamiere fino ad una altezza di circa 2 metri lasciando circa 70 per lo sfogo del fumo della carbonaia. Però questa tipologia di struttura chiusa, per la protezione della Carbonaia, è stata utilizzata dagli altri Carbonai della zona soltanto dopo 5/10 anni dalla sua scoperta. Con questo tipo di struttura e diversi altri accorgimenti, si è allungato anche il periodo in cui si è autorizzati a fare carbonaie (qualche Carbonaio addirittura non si ferma neanche). Quì i Carbonai pur avendo tutti attuato la Carbonaia chiusa, sono molto vigili su tutte le fasi della stessa e, con il variare delle condizioni atmosferiche sono più o meno presenti sul luogo togliendo qualsiasi pericolo che ne può derivare da un eventuale incendio, visto che sono poste all’interno del Parco dei Sibillini e Parco dei Monti Azzurri.

Monti Alberto con il grande aiuto di Quinto Maurizi e Cicconi Ugo

Deposito della legna
Alla sinistra dell’attuale strada sterrata si trova, il deposito della legna, dopo averla tagliata a pezzi lunghi, che viene utilizzata per fare la Carbonaia. Una volta quel canalone che si vede nella foto era la mulattiera principale di collegamento della Roccaccia-Monte Bozzi alla frazione di Villa di Montalto.

Taglio della legna lunga
In questa fase Pietro Bozzi e suo figlio sono intenti nel taglio della lunga (circa 2 mt.) in pezzi con una lunghezza variabile dai 50 a 70 centimetri, però non vengono scartati pezzi piccoli che vengono impiegati successivamente nella fase della costruzione della carbonaia per riempire quegli spazi vuoti creati dalla legna di diverso calibro. La legna che si trova in questo spiazzo davanti alla carbonaia, proviene dalla proprietà dei fratelli Bozzi quindi non associata alla Comunanza del luogo.

Trasporto della legna per la carbonaia
In questa fase Mario Bozzi sta portando la legna grande all’interno “dellu cappannu” per la costruzione della Carbonaia. Il trasporto avviene per mezzo di una comune carriola e la forza delle braccia di Mario che porta ogni volta circa 50 Kg. di legna che viene posta in circolo attorno il centro della carbonaia. La legna in questione ha un diametro di circa 8 cm. ed una lunghezza variabile tra i 50 e i 70 cm. e viene utilizzata per creare il cuore della Carbonaia cioè quello che diventerà il miglior carbone della N’COTTA.

La piazza o “spiazzu”
La Piazza è il cuore della Carbonaia. Quella in questione è larga 5×5,8 metri e può contenere una Carbonaia larga 4,30 metri ed alta 1,60. La Piazza è la fase più importante della Carbonaia, deve essere perfettamente in piano in un terreno ben dissodato da pietre per non compromettere la “n’cotta” (cottura della Carbonaia). Se nella Piazza vi sono delle pietre il surriscaldamento della Carbonaia con il terreno sottostante non è omogeneo e quindi dove si trovano le pietre la Cottura della Legna non avviene bene e creano i cosiddetti “Crudi” o Carbone non cotto che però non viene gettato ma riciclato nella prossima “n’cotta”. Nella Piazza in questione la Carbonaia viene ancora centrata a piedi e per la precisione a 7 piedi effettivi di Pietro Bozzi da tre pali circostanti ed ovviamente nel lato rimanente deve essere almeno 1 metro largo per permettere il passaggio della carriola con la legna ed il posizionamento della scala sopra la Carbonaia per effettuare l’accensione e varie altre manutenzioni per la riuscita della “n’cotta”.

La casella
La Casella altro non è che l’inserimento di due pezzi di legna (in questo caso di Leccio) in terra al centro della Piazza della Carbonaia verticalmente al Carbonaio, ed altri due sopra in modo orizzontale così da formare un quadrato, la cosiddetta Casella. Il diametro della legna può variare da circa 5 centimetri ed arrivare fino ad 8 e la sua lunghezza è di circa 60/70 centimetri sovrapposti per circa 10/20 componendo così un quadrato con lati da 50 centimetri che poi diverranno il Camino della Carbonaia

Il camino e castello
Il Camino è un’insieme di Caselle sovrapposte fino ad arrivare ad una altezza di circa 80 centimetri e poi viene continuato con la legna che viene posta tutta in circolo fino ad arrivare ad una altezza di circa 1,60 metri secondo la grandezza della carbonaia. Creato il Camino si inizia a mettere della legna tutta intorno al Camino e il primo giro viene chiamato, il Castello per la sua sembianza ad una torre fortificata.

La costruzione della carbonaia
La carbonaia dopo circa 3 ore di lavoro di due persone (uno trasporta la legna e l’altro la monta) acquista questa grandezza con legna lunga dai 50 ai 70 centimetri ed arriva ad una altezza quasi definitiva di 1,50 metri.

La costruzione della carbonaia
La carbonaia dopo circa 4 ore di lavoro di due persone acquista questa grandezza con legna lunga dai 30 ai 50 centimetri e di circa 4 di diametro. Vista la pzzatura piccola della legna

La fratta di ginestre e le sboccature
La così detta “fratta, dai fratelli Bozzi” è il posizionamento della pianta della Ginestra del Carbonaio intorno, nel lato basso, della Carbonaia. La pianta cresce spontaneamente a queste alture, si fa essiccare e si utilizzano nella Carbonaia per poter far accedere dell’aria (tramite delle sboccature – foto in alto) all’interno della Carbonaia per poterla far ardere quando viene posto il coperchio, rendendo così il fuoco “CARCERATO”, dopo la copertura con la terra e l’incendio della Carbonaia. Da queste sboccature, dopo l’incendio, dovrebbe uscire in modo uniforme il fumo bianco tutto attorno alla Carbonaia, questa è la fase con la quale il Carbonaio riesce a capire se la Carbonaia è stata realizzata e se si è incendiata in modo regolare. Prima dell’inserimento della Ginestra del Carbonaio si utilizzavano le fronde delle quercie, attualmente sotto protezione quindi non più utilizzabili.

Copertura con la paglia
In questa fase si copre la Carbonaia con della paglia comune (se un pò umida è meglio) per evitare che la terra, nella fase di copertura con la stessa, vada a contatto con la legna e penetri all’interno della Carbonaia stessa rendendo impossibile la riuscita della N’COTTA. La paglia viene stipata nel piazzale adiacente la Carbonaia e all’aperto proprio perché con gli sbalzi di temperatura si umidisca rendendola più compatta e resistente alle temperature della Carbonaia.

Copertura con la terra
In questa fase si copre la Carbonaia con della terra comune che con il passare del tempo assume un colore grigio-nero essendo riutilizzata sempre la stessa. La terra serve per sigillare la Carbonaia dalla fuoriuscita del fuoco in modo da creare il così detto “FUOCO CARCERATO” che tramite le sboccature deve ardere in modo che cuoce la legna senza bruciarla. La Carbonaia viene totalmente coperta con la terra, anche le sboccature, che poi vengono riaperte, secondo la circostanza, per far ardere la Carbonaia in modo controllato così da permettere la cottura della legna.

Lisciare la carbonaia
In questa fase Mario Bozzi sta lisciando la terra posta sopra la Carbonaia in modo da poter otturare qualsiasi buco che può compromettere la N’COTTA. Questa fase è molto importante perché non solo si toglie i buchi ma anche perché vengono tolte le pagliuzze che fuoriescono dalla terra che bruciando creano delle ulteriori prese d’aria che rendono difficile il controllo della Cottura della Carbonaia.

Brace per incendio carbonaia
In questa fase Mario Bozzi sta bruciando della piccola legna che trova in giro per la Carbonaia. In quel giorno in cui ho fatto le foto la giornata era molto umida perché aveva piovuto ed oltre alla normale carta, che nel periodo estivo, bastava per far brace ha dovuto aggiungere del liquido infiammabile. Per una Carbonaia di 40 quintali di legna bastano tre palate di brace per incendiarla, però non è detto che questa operazione riesca sempre quindi si può arrivare fino a cinque.

Sistemazione della brace
Questa fase viene effettuata dopo che la carbonaia è stata incendiata e rimboccata per la prima volta con la legna più piccola, e serve per sistemare la stessa sopra la brace inserita prima, in modo da poter rendere più facile l’accensione della Carbonaia. Questa fase viene fatta tutte le volte che carbonaia viene rimboccata.

Inserimento della brace nella carbonaia
In questa fase Mario Bozzi sta inserendo nel Camino della Carbonaia la brace in quantità variabile a seconda della stagione (fredda o calda). Una volta inserita la brace, questa viene, tramite un bastone, sistemata in modo che si disponga in tutta la casella in modo da incendiare la carbonaia in modo omogeneo per “tribulà de meno” poi quando si faranno le sboccature per far prendere l’aria alla stessa.

Legna piccola per incendio carbonaia
La legna in questione è quella utilizzata immediatamente dopo l’incendio della carbonaia, è di pezzatura piccola: lunga circa 15 centimetri con un diametro di 2. In questa fase la legna deve essere secca in modo da alimentare bene il fuoco all’interno della Carbonaia. Di questa legna ne serve tre secchi, ed ogni secchio contiene circa 6 chili.

Legna da rimbocco
La legna detta dai Bozzi da “Rimbocco” è quella legna che viene utilizzata per tenere accesa la carbonaia durante tutta la sua N’COTTA. Di pezzatura piccola, circa 10 centimetri per 4, viene inserita tre volte al giorno per i primi 4 giorni, la mattina, a pranzo e la sera prima di andare a cena. Dopo i quattro giorni la Carbonaia viene rimboccata due volte al giorno, la mattina e la sera. Questa prassi può variare se la carbonaia non si accende bene e la spia di questa situazione è il fumo che esce dalle sboccature, il Carbonaio deve essere molto bravo a capire se la N.COTTA procede bene ed intervenire nel chiudere od aprire delle sboccature in modo che il carbone si cuocia bene in tutta la carbonaia evitando di creare i così detti “Crudi” ovvero legna non bene carbonizzata.

Cottura della carbonaia (n’cotta)
La Carbonaia in questa fase è al settimo, e forse ultimo giorno, di cottura. Dalla sua altezza originaria di circa 1,60 mt. è calata a circa 90 cm. e la legna, 40 quintali, è diventata circa 10 quintali di carbone, se non si sono creati dei crudi, (legna non conta a sufficienza). In questa fase le sboccature vengono chiuse in modo che la carbonaia, non avendo più prese d’aria, si spenga da sola e lentamente. Se la cottura è riuscita in modo regolare dalle sboccature fuoriesce fumo non più di colore bianco ma grigio scuro.

Toglie la terra dalla n’cotta
In questa fase Pietro Bozzi ha iniziato a ripulire la N’COTTA dalla terra che verrà stipata intorno allo spiazzo in uno spazio scavato a ridosso delle lamiere che cingono la carbonaia. Questa operazione richiede circa mezz’ora in due persone. Nel tempo questa terra diminuisce di quantità perché in questa operazione, o per il vento e altri eventi metereologici, la terra si polverizza, allora viene rimpiazzata con della terra locale.

Estrazione del carbone dalla n’cotta
In questa fase Mario Bozzi ha iniziato ad estrarre il carbone dalla N’COTTA. Per questa operazione si utilizza un forcone in ferro a cinque denti molto larghi per permettere un primo filtraggio tra le varie pezzature di carbone. Il carbone viene ammucchiato in circolo a circa un metro di distanza dalle lamiere in modo da facilitare l’insaccamento dello stesso. In questa fase si verificano principi di incendio del carbone che il carbonaio, attento alla sua N’COTTA, deve prontamente spegnere per evitare la perdita del carbone in fumo.

Spegnimento dei focolai
In questa fase Pietro Bozzi sta riempiendo un secchio di acqua con il quale riempirà poi degli annaffiatoi che serviranno a spegne quei focololai che si accendono quando viene rotta la N’COTTA. Questa fase è molto importante perché bisogna essere molto accorti ai piccoli fumi che si sviluppano nella rottura della N’COTTA perché dopo i fumi avvengono piccoli incendi che compromettono la qualità ed il peso del Carbone.

Filtraggio del carbone dalla terra
In questa fase Mario Bozzi sta passando il carbone-terra (miscelati) con la “Conciarella o filtro” per filtrare la terra, la quale essendo polvere passa attraverso il filtro, dal carbone di pezzatura piccola che rimane ai piedi della “Conciarella” e dopo diversi filtraggi i piccoli pezzi di carbone viene insaccato insieme a quello di pezzatura grande. Niente si spreca, in questo antico mestiere, ma viene riutilizzato o reciclato.

Insaccamento del carbone
In questa fase Mario Bozzi sta riempiendo i sacchi (una volta di tela, oggi di carta) di carbone, operazione ancora oggi svolta manualmente. Ogni sacco contiene circa dai 30 ai 50 Kg. di Carbone in base alla pezzatura e vengono stipati all’interno della carbonaia fino al completo insaccamento di tutto il carbone, per evitare che mettendolo all’esterno venga bagnato dalla pioggia che a questa altezza è molto frequente.

Trasporto del carbone
Il trasporto del carbone dalla carbonaia all’abitazione dei Bozzi, avviene, per quanto riguarda il caricamento, a mano, il trasporto invece, come si può vedere in foto, con un ape 500, molto pratico per questo ed altri tipi di lavori.

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I nostri boschi
Ciascuno di noi, da piccolo, ha provato certamente un po’ di paura camminando attraverso il bosco. Presso ogni popolo, infatti, sono fiorite fiabe, leggende, racconti immaginari sulle sue creature, gnomi, fate, folletti… Esso ci appare, oggi, come un ambiente vivo e brulicante non di fate e folletti, ma di animali, insetti, piante di ogni genere. Noi abitanti della zona temperata conosciamo benissimo il bosco che abbellisce il paesaggio delle nostre campagne. E’ diverso e più accogliente delle foreste intricate e lussureggianti delle zone equatoriali e delle estensioni di conifere delle fasce continentali. Né l’uno, né l’altro di questi due “popolamenti” di alberi hanno le caratteristiche del bosco il quale è un ambiente naturale, soggetto all’avvicendamento delle stagioni, le cui piante sono in grado di affrontare le diverse condizioni climatiche. Il bosco, naturale o artificiale, può estendersi in pianura, in collina o in montagna. Esso protegge il terreno dall’erosione delle acque torrenziali, dalle valanghe, modera la forza del vento, ha influenza sul clima, abbellisce il paesaggio, produce legname per un’infinità di usi. Quando le sue piante si innalzano con un fusto di notevole altezza, prende il nome di “bosco ad alto fusto”, mentre, quando è formato di singoli gruppi di piante della stessa specie assume la denominazione di “bosco ceduo” e viene tagliato in media ogni 15-20 anni. La maggior parte dei nostri boschi sono “cedui”. Quando, infine, è formato da una sola specie di piante, si dice “bosco puro” e prende il nome dall’albero che vi cresce (pineta, abetaia, faggeta, ecc … ), al contrario, se in essa crescono più specie di piante, si dice “bosco misto”.

La nostra Italia è suddivisa in quattro zone forestali:

1) il “lauretum” che va dal livello del mare fino a circa 500 metri di altezza; vi troviamo il leccio, il pino marittimo, il pino domestico, il pino d’Aleppo, la quercia da sughero, ecc.;

2) il “castanetum” che va dai 500 ai 1000 m. di altitudine, dove crescono cerri, roverelle, frassini, ornielli, aceri, pioppi, olmi, ecc., come possiamo riscontrare nelle nostre zone;

3) il “faggetum” che va dai 1.000 ai 2.000 m. ed è la zona ottimale per l’acero montano, l’ontano, il tiglio, l’abete bianco, il faggio, la betulla, il tasso.

4) Oltre i 2.000 m. troviamo il pino cembro, l’abete rosso, il larice, le piante resinose in genere.

Come tutti gli esseri viventi, il bosco ha i suoi nemici nelle gelate tardive, nei venti, nel freddo intenso, nelle tempeste che causano lo sfogliamento dei rami, nei fulmini, negli incendi, nella siccità prolungata. Oltre alle avversità atmosferiche, possono causare danno all’albereta di giovane età gli animali da pascolo ed i parassiti. L’uomo diviene suo nemico, quando non è disponibile al rispetto di ogni forma di vita, animale o vegetale che sia. Nello sfruttamento dei boschi, vengono praticate numerose modalità di taglio, come quello saltuario, successivo o raso. Per quello che riguarda i nostri boschi cedui, il taglio va effettuato non prima che le piante abbiano 16 anni d’età, o almeno 24 anni se si tratta di faggi situati oltre i 1.000 metri di altitudine. Una regola che il boscaiolo deve rigorosamente rispettare è quella di lasciare, a distanza di circa 15 metri, le cosidette “guide”, alberi che poi avranno la funzione di disseminare il terreno con i loro semi.

Il sottobosco
Tra gli alberi del bosco prolifera, rigoglioso e vivo, il sottobosco. Esso comprende una vegetazione bassa, spontanea, in seno alla quale vivono una miriade di animali di ogni specie. Nel “castanetum” predominano felci aquiline, molinie, ginestre dei carbonai, gerani del bosco, mirtilli, fragole, ciclamini, ecc.. Nel sottobosco del querceto crescono il biancospino, il maggiocindolo, il ligustro, il “pallone di Maggio”, il tamaro, la clematide, il ciclamino, la primula, il carpino nero, l’orniello. Ai piedi delle faggete vegetano, invece, l’acetosella, la viola silvestre, la stellina odorosa, il lampone mentre, sotto le abetaie, attecchiscono il mirtillo, il lampone, la linnea, ecc.. Ginestre, ginepri e pungitopi vivono nei sottoboschi di roverella; ovunque troviamo funghi, muschi e licheni. Da tutti riconosciuto che il bosco sia utile, anzi indispensabile, alla nostra sopravvivenza come a quella di moltissimi altri esseri. Basti pensare alle campagne promosse in sua difesa, contro gli inquinamenti, gli incendi, i tagli indiscriminati ed a favore dei rimboschimenti e del rispetto delle piante in genere. Un tempo si celebrava, a novembre, la Festa degli Alberi. Ora, invece, sembra che essa vada a finire nel “dimenticatoio”, insìeme con altri valori che il progresso scientifico e tecnologico non permette di apprezzare a fondo. Se così fosse, sarebbe cosa grave, perché non ci metteremmo nella condizione di preservare per le generazioni future un patrimonio naturale di inestimabile valore. Per noi è cosa normale e non sappiamo nemmeno gustarlo fino in fondo. Lo godono in tutta la sua bellezza, invece, coloro che, dalla città, vengono a godersi la sua pace, lontani dal fumo, dai rumori, dal grigio del cemento. Essi sanno che c’è una notevole differenza tra il vivere in città e respirare l’aria ossigenata delle nostre zone. Il bosco, poi, è anche una difesa naturale contro valanghe e frane: chi non ricorda i tragici fatti di Bolognola del 1929? Provate a pensare come incomberebbero minacciosi i monti vicini, durante la stagione invernale, se non fossero coperti di alberi! Dove c’è il bosco, c’è vita! In esso vivono moltissime specie di animali, grandi e piccoli che si nutrono dei suoi frutti. Sulle nostre montagne troviamo la volpe, il tasso, la lepre, la donnola, la faina, lo scoiattolo, il ghiro e tanti altri, mentre sono numerose le specie di uccelli e di insetti. Negli ultimi anni è arrivato il cinghiale che, immesso per la prima volta per un tentativo di ripopolamento, ha trovato l’ambiente ideale e si sta diffondendo in numero sempre crescente. Possiamo dire che ha sostituito il lupo nel ruolo di dominatore dei nostri boschi. Come tutti gli altri animali, questo è oggetto di caccia, una caccia che, per gli appassionati del luogo, si sta rivelando nuova e perciò assai interessante, specialmente se condotta nel rispetto più rigoroso delle norme che la regolano e nello spirito di salvaguardia dell’ambiente in cui anche l’esercizio dell’attività venatoria deve trovare un punto di riferimento.

Il carbonaio
A questo punto vorremmo parlarvi del carbonaio che è uno degli utenti della Comunanza Agraria. Abbiamo cercato di conoscerlo meglio perché lo riteniamo una persona un po’ furori del tempo per le abitudini di vita che, a causa del suo lavoro, è costretto a continuare e a consolidare. A Cessapalombo sono rimasti ormai pochi i carbonai e, tra questi, c’è chi si dedica solo saltuariamente alla lavorazione del carbone. I fratelli Bozzi che vi si dedicano con una certa continuità ed è, quindi, forse gli unici e veri carbonai ancora in attività. A Cessapalombo, tuttavia, vivono ancora numerose persone che, in un tempo più o meno lontano, si sono dedicate alla produzione del carbone. Le ricordiamo ancora passare per il paese, all’alba o al tramonto, con il fedele asino, a, volte neri in viso, appunto come carbonai. Li ricordiamo tutti in questa sede per rendere il giusto riconoscimento a uomini che hanno trascorso una vita in un’attività dura e piena di sacrifici. In queste persone potevamo e possiamo apprezzare un insieme di abitudini, di qualità fisiche e morali, di modi di vedere le cose e, soprattutto, il lavoro che li accomunano in una categoria a parte, anche se ovviamente inserita nel nostro contesto sociale. Osservare un carbonaio in attività vuol dire apprezzarne l’esperienza acquisita nel corso di lunghi anni di dura fatica che lo porta ad eseguire con sicurezza e precisione ogni atto o movimento richiesto da questo tipo di lavoro, del quale conosce a fondo ogni aspetto, teorico e pratico. Dai gesti del carbonaio traspare, inoltre, la lentezza, una lentezza che, tuttavia, è indice di meticolosità, di precisione, di accuratezza, di calma interiore, di consapevolezza del fatto che il lavoro del boscaiolo in genere è duro e che esso va affrontato con metodo e calma per poter portare a termine una lunga giornata e magari, una volta giunto a casa, poter accudire ad altre faccende. La sua vita è fondata sull’operosità, ma è anche caratterizzata dalla solitudine. Per molta parte della sua giornata il carbonaio resta solo con se stesso, a contatto con una natura incontaminata che egli ha imparato a sfruttare, che, nello stesso tempo, sa rispettare profondamente in tutte le sue varie forme di vita, animale e vegetale. Egli saprebbe insegnare questo rispetto a coloro che avessero la costanza di seguirlo un po’ nel suo comportamento in genere, quando si trova alla cotta, quando taglia o scava soltanto ciò che gli è necessario, senza mai eccedere. Il coraggio è un’altra delle qualità da apprezzare in chi è nelle condizioni di vivere per lunghi periodi, lontano dal mondo abitato, con la probabilità, seppur remota, di trovarsi ad affrontare situazioni di pericolo, come l’incendio della sua cotta, un animale selvatico od un infortunio, senza avere la possibilità di essere soccorso da qualcuno. Il carbonaio sa queste cose e, perciò si comporta rispettando certe regole ispirate ad un’estrema prudenza, soccorso dall’esperienza consolidata nel tempo. Se non si va a fargli visita in montagna, difficilmente si può parlare con lui che, come abbiamo detto altrove, si reca al lavoro all’alba e torna a casa a sera inoltrata. Non è così, tuttavia, durante la stagione invernale. Allora lo si trova in giro per il paese, all’osteria e al bar: egli vive una vita normale, insieme ai familiari ed agli amici e, quindi, capita l’occasione dì disputare una partita a carte con lui, di parlargli, di scherzarci, insomma di poterlo conoscere a fondo. Di conseguenza è possibile apprezzarne la semplicità, l’ottimismo di chi è abituato ad affrontare una vita dura, la serenità di chi vive a contatto diretto con la natura, la saggezza di chi proviene dal mondo rurale, una saggezza ormai rara, che è data di trovare solo in poche persone. Questi personaggi destinati a scomparire, infatti, lasceranno un’impronta, un esempio da imitare pure se il mondo è indirizzato verso altre prospettive. Quasi in ogni famiglia di Cessapalombo, e spesso anche in quelle delle frazioni vicine, c’era una persona che si dedicava, almeno saltuariamente, a questo lavoro. Nel passato non c’era molta scelta tra l’emigrazione, il lavorare la terra, la pastorizia e lo sfruttamento del bosco. Noi non siamo testimoni di quel fervore di attività nei boschi delle nostre montagne. Sono gli ultimi carbonai, tuttavia, a raccontare come allora, tra gli alberi, ci fosse gente, ci fosse vita. Poi, intorno agli anni ’60, è arrivato il gas da cucina. Esso si è dimostrato subito più pratico del carbone ed in poco tempo lo ha sostituito nella cottura dei cibi i quali, se hanno guadagnato in quanto a tempo di preparazione, hanno perso, senza dubbio, il loro antico sapore genuino. Il progresso, ciò nonostante, voleva questo, pagando un prezzo, a volte alto, dovuto alla pericolosità dello stesso gas. Di conseguenza è diminuita la richiesta di carbone in maniera netta e coloro che lo producevano hanno dovuto dedicarsi ad altre attività. Ora il carbone si trova in ogni famiglia, ma sta riposto in un angolo e viene usato solo raramente, quando si vuole assaporare ancora una volta il gusto di una bistecca alla brace o di una bella salsiccia rosolata. Lo spopolamento generale del paese ed il sacrificio continuo richiesto dal lavoro del carbonaio, inoltre, hanno contribuito in maniera determinante a ridurne il numero a pochissime unità. E’ ovvio, poi, che i giovani di oggi cerchino occupazioni maggiormente remunerative, meno faticose, che lascino loro del tempo libero da dedicare alla propria persona, alla famiglia ed agli amici. Di conseguenza sono rimasti attaccati al lavoro del carbonaio soltanto coloro che vi si dedicavano già da tempo: le persone anziane. Ma quanto dureranno ancora?

La casa del carbonaio
L’atteggiamento di queste persone sembra che facciano parte di un mondo che non è più, presi come siamo dalla nostra fretta e dal nostro egoismo. Le case presentano le vecchie strutture murarie, i pavimenti di mattoni rossi, le travi di quercia, grosse e squadrate alla meglio, le finestre piccole e protette dagli antichi «scuri», l’ingresso ampio, la fontana all’aperto, la stalla di sotto, il magazzino. All’interno tutto è come una volta. Un grande camino domina la cucina. Nel suo muro di fondo si apre la bocca del forno dove ci cuociono ancora il pane fatto in casa. Gli alari e tutti gli altri utensili per maneggiare il fuoco denunciavano la loro veneranda età, così neri e arrugginiti. Sul ripiano del camino c’era di tutto: una spazzola, vecchie foto, un antico macinapepe tutto affumicato, dei barattoli di varia grandezza, messi lì per contenere tutto quanto capita per le mani, un ferro da stiro almeno centenario, ed altre cose. Ai lati una vecchia sdraia non proprio intonata con il resto dell’arredamento ed una sedia di paglia, di quelle fatte a mano, dura e pesante. Il fuoco ardeva pigro, alimentato da due grossi tronchi. Da una parte c’era un vecchio tavolo in legno massiccio, attorniato da alcune sedie impagliate, con sopra la spesa appena fatta. Di fianco al camino stava l’«appiccarame», un telaio di legno con varie traversine, dove erano appesi tutti gli utensili da cucina: pentole, tegami, colini, mestoli, coperchi, teglie, pentoloni e tante altre cose in un disordine solo apparente. Sotto una stretta finestra c’era il lavandino con l’acqua corrente, cosa che non abbiamo trovato nell’altra abitazione, un lavandino in cemento grezzo con sopra i piatti appena lavati ed il vaso (il boccale) per spillare il vino dalla botte, il quale forse si trovava lì solo per ornamento. Ci ha anche colpito una macchina da cucire vecchissima e gli alunni si sono interessati della sua indubbia età, la quale, però, non impediva che essa fosse perfettamente funzionante. In quella cucina trovava posto di tutto, ossia tutto quello che, in una abitazione moderna, si va a riporre nell’armadio, nel magazzino, nel garage o dietro una tenda. Abbiamo notato la “stadiera” nera e unta, la brocca per l’acqua, le secchìe per il bucato a mano, “lu corvellu”, una specie di cesto rotondo e basso, con il quale una volta si separava il grano dalla pula, alcuni recipienti di rame come lo scaldaletto, la “cuccuma”, un catino per lavarsi le mani e tante altre cose. In un angolo, una vecchia scala in legno, che portava al piano superiore, ora sostituita, in altre abitazioni, da quella in cemento armato. Nel sottoscala c’era ciò che faceva pensare ad un ripostiglio: casse di bibite, bottiglie di pomodoro in conserva, secchi vuoti, alcuni canovacci, un paio di stivali e così via. Le pareti erano abbellite esclusivamente con foto di persone care, alcune delle quali era chiaro che fossero vissute qualche secolo prima, e con immagini sacre. In una delle due case era allestita una cappellina privata dove, fino a poco tempo fa, si celebrava la Messa. Nella casa di un carbonaio, una di quelle di una volta, insomma, non sono i mobili a fare bella mostra di sé, bensì sono tutti gli oggetti utili e gli utensili che vengono sistemati in ogni angolo libero. Però non c’è disordine, non si esce da lì con l’impressione di poca cura, anzi, si esce da un mondo dignitoso nella sua arretratezza. Aver constatato la capacità di quelle persone di saper apprezzare cose semplici, antiche, non sempre funzionanti, ma ugualmente care a chi è vissuto una vita con loro, lascia ammirati.

Gli indumenti del carbonaio
Gli indumenti del carbonaio debbono rispondere ad un’esigenza di semplicità e di praticità perché anch’essi fanno parte di un insieme più ampio di attrezzi, utensili, viveri e mezzi vari, i quali vanno a formare un equipaggiamento in grado di rendere possibili e accettabili la sua vita all’aperto ed il suo duro lavoro. Oggi il boscaiolo non ha la necessità di vestirsi in una maniera precisa. Certo, il mestiere gl’impone, ad esempio, l’ombrello da usare in caso di pioggia improvvisa, una maglia pesante che possa difenderlo dal freddo e assorbire il sudore. E’ pure indispensabile che egli calzi un paio di scarponi alti e muniti di una suola di solida gomma che aderisca il più possibile al terreno e che indossi un paio di pantaloni pesanti che lo proteggano da eventuali rettili o dalle ferite che i rovi del sottobosco potrebbero causargli. In quanto a quello che i carbonai indossavano nel passato, abbiamo avuto le notizie necessarie da un’intervista, da vecchie fotografie e da informazioni chieste a chi, una volta, lavorava nel bosco. Prima di tutto occorreva che gli indumenti fossero robusti, di velluto o di panno, in tinta scura al fine di non evidenziare troppo i segni del carbone. Gli scarponi erano pesanti e chiodati, mentre, in caso di freddo o di notte, il carbonaio indossava lunghe mantelle nere o cappotti militari lunghi fino ai piedi, grigioverdi e pesanti fino all’inverosimile. Un cappello scuro, dalla falda larga e irregolare, completava il tutto. Un grembiule di juta, la “pannella”, lo proteggeva quando era al lavoro. Il carbonaio spesso aveva la necessità di lavorare anche sotto la pioggia ed allora si preparava un vero e proprio cappuccio con un semplice sacco di juta che lo copriva dalla testa fino alle spalle. Tutto qui, perché nel lavoro del carbonaio non può interessare l’aspetto esteriore che, a volte, può sembrare anche strano.

Gli attrezzi del carbonaio
Gli attrezzi, che il carbonaio usa nel suo lavoro, sono molteplici e vari, perché sono molte le cose che deve fare quando si tratta di predisporre o di far ardere la cotta. Essi, ora, risentono in parte del progresso in atto in tutti i campi dell’attività umana, per cui ne troveremo alcuni ancora quasi primordiali, mentre altri sono il prodotto della moderna tecnologia.

“Lu marracciu”.
E’ forse l’attrezzo che il carbonaio usa più spesso. Per averlo sempre a portata di mano, egli lo tiene appeso ad un gancio metallico o in legno, a sua volta infilato nella cintura. Il suo nome esatto è la roncola, mentre in altre forme dialettali è chiamato “lu fargione”. La sua lama, larga circa 10 cm., lunga circa 25 e adunca, è fissata ad un manico di plastica. Un tempo il carbonaio stesso ricavava il manico da un pezzo di legno idoneo. Serve per recidere arbusti, per ripulire uno spazio da rovi e da spini, per la “sbrollatura” del legname, per tagliare con un solo colpo i legni più sottili. Il carbonaio non di rado lo usa, affondando la sua punta nel terreno o in un ceppo per inerpicarsi in qualche parte più ripida del bosco.

La scala
E’ indispensabile anche se serve solo in poche occasioni, come per ultimare la composizione della carbonaia, per salirvi sopra quando si tratta di accenderla, per “rabboccarla”, per controllarne periodicamente il funzionamento. Il carbonaio se la costruisce da solo. Può semplicemente fissare con del filo di ferro alcuni pioli trasversali a due pali ed in questo caso compie l’operazione direttamente nel bosco; oppure si prepara l’attrezzo con maggiore cura, predisponendo le sue parti ben squadrate e diritte.

L’ascia
Un tempo era l’utensile con il quale venivano abbattuti e sezionati gli alberi. Oggi, invece, il suo uso è stato ridimensionato e ridotto a pochissime occasioni. Il carbonaio usa l’ascia al momento della pezzatura del legno o per tagliare qualche grossa radice che non può raggiungere con altri attrezzi. Essa è costituita da una lama in metallo, di forma triangolare, alla cui sommità è fissato un “occhio”, affilata nella parte inferiore per mezzo di una mola, come quella che vediamo nella foto. All’occhio viene fissato un manico in legno, di circa un metro di lunghezza.

La motosega
Questo è un attrezzo nuovo che ha accorciato sensibilmente i tempi di lavorazione e diminuito anche la fatica di abbattere gli alberi con l’ascia, della quale, insomma, ha preso il posto. Non stiamo a descriverla perché è da tutti conosciuta; piuttosto ne vorremmo sottolineare la praticità (in un giorno un buon tagliatore, con la motosega, riesce a tagliare e sezionare 70-80 q.li di legna), e anche la pericolosità, riferita alla sua lama che gira vorticosamente.

La pala
La pala, altrimenti chiamata badile, è usata dal carbonaio al momento della preparazione della spiazza, quando si tratta di rimuovere terra o sassi, al momento di passare per la “conciarella” il terriccio scavato, nonché quando si tratta di sfornare il carbone e di riempire i sacchi. Gli usi che di questa si possono fare intorno alla cotta sono pochi altri.

La “conciarella”
E’ un utensile che il carbonaio costruisce interamente da solo: preparato un telaio di legno, di forma più o meno rettangolare e della grandezza desiderata, egli vi fissa, con dei chiodi, una rete metallica, idonea a “passare” il terriccio, con lo scopo di separarlo dai sassi più grossi che sarebbero inutili per la copertura della carbonaia.

La “cupella”
Questo è un attrezzo che viene dal passato, quando era usato per mettervi il vino in fermentazione. Si tratta di una botticella di dimensioni ridotte, con un foro nella sua parte mediana, costruita con doghe di rovere o di altro legno duro, fissate con due o più cerchi metallici. Il carbonaio la riempie d’acqua che userà in varie occasioni: dissetarsi, lavare qualche posata, spegnere i tizzoni ancora accesi all’atto della sfornatura o un eventuale focolaio d’incendio, ecc.

Il carbonaio, poi, nelle varie fasi della lavorazione del carbone, si serve di altri numerosi attrezzi, come il rastrello per separare il carbone dal terriccio, il piccone per preparare la spiazza e il ripiano sul quale poggiare il capanno, la “‘mpennazzata” per riempire i sacchi di carbonella, una torcia elettrica per la notte. Quest’ultima, un tempo, non era disponibile, quindi egli ricorreva alla “centilena”, se non soffiava il vento che poteva spegnerla, ed alla lanterna, quando, invece l’aria era più mossa, perché la fiamma era protetta da un vetro.

La spiazza
Per coloro che frequentano i nostri boschi, come i cacciatori, i cercatori di funghi ed i pastori, non e’ difficile imbattersi in una “spiazza”, in quel ripiano pressoché circolare che gli antichi carbonai scavarono per il loro lavoro e, precisamente, per impiantarvi la cotta. Quando si arriva ad una spiazza, la prima cosa che viene spontanea è di riposare, di godere per qualche minuto della comodità di quel piccolo lembo di terreno, magari di fermarvisi per uno spuntino, all’ombra degli alberi circostanti che la ricoprono con le loro chiome verdeggianti. E poi sorge una domanda: – Chi sarà stato a lavorare in questo posto? Quanto tempo fa ciò sarà successo? Queste domande, a volte, possono avere una risposta; altre volte, invece, resta ignoto il nome di colui il quale, chissà quanto tempo fa, si è trovato a cuocere il carbone in quel luogo. Si trovano tante spiazze, sparse per tutti i boschi, vicine e lontane. Ad esse si accedeva a stento, anche dopo lunghe marce a piedi o a dorso di asino, perché, ai tempi dei nostri nonni, si andava a fare il carbone pure in luoghi lontani. Oggi, invece, non è più così. Il carbonaio scava la sua spiazza in un bosco abbastanza vicino alla strada e alla sua casa, alla quale si possa accedere con facilità, magari con una vecchia auto. Essa, tuttavia, ovunque si trovi, porta alla mente il lavoro, la solitudine, la pazienza, la frugalità ed anche un pizzico di coraggio di chi l’ha costruita. La vecchia spiazza è ricoperta di vegetazione più florida di quella circostante, perché il terreno è più fertile che altrove, in quanto la stessa cenere, residuo della cotta, funge da fertilizzante. Intorno al suo perimetro svettano le piante che furono lasciate a circondare e a proteggere la cotta da venti troppo impetuosi. Il bordo che la delimita è spesso franato, però ciò non impedisce di apprezzarne la forma circolare ed il livellamento del terreno quasi perfetto e le dimensioni, che possono variare, ma che si aggirano sui 5-7 metri di diametro. Come il carbonaio scava la sua spiazza? Prima di tutto cerca il luogo, e la scelta deve soddisfare certe esigenze, quali la possibilità di ammassare nelle immediate vicinanze il legno da cuocere, la facilità di accesso e di uscita, con il carbone, la giusta ventilazione, la natura del terreno, che deve permettere lo scavo ed il livellamento senza eccessivi problemi. Scelto il posto, egli passa al lavoro vero e proprio, usando il piccone per lo sbancamento, il badile e la carriola per spostare la terra, la “stanga di ferro” per le pietre più resistenti. Nel contempo provvede a Cassare attraverso la conciarella, il materiale scavato, con lo scopo di ricavarne un fine terriccio, con il quale coprire la cotta, durante la cottura del carbone. Il lavoro, a seconda del terreno, può durare un paio di giorni. Subito dopo la spiazza viene circondata da una siepe di altezza varia, con un paio di uscite, in modo che possa regolare la ventilazione e, contemporaneamente, proteggere il luogo da eventuali animali vaganti. Detta siepe viene approntata con cura, usando rami e frasche conficcati nel terreno e sorretti da pali legati con il filo di ferro per stringere e fissare le frasche stesse. Ad essa, poi, vanno appoggiate alcune lamiere. Una semplice sbarra di legno ostruisce il passaggio. Il capanno deve necessariamente trovare posto accanto alla spiazza, mentre tutti gli attrezzi da lavoro sono sistemati intorno ad essa, in modo che siano sempre a portata di mano.

Il capanno
Ora che l’accesso ai boschi è facilitato dalle strade e dai mezzi di trasporto, il carbonaio ha la possibilità di recarsi sul posto di lavoro ogni mattina e di tornare a casa la sera. Solo raramente costruisce un rudimentale rifugio. Una volta, invece, non era così. Il carbonaio trascorreva buona parte dell’anno tra i boschi, in compagnia di volpi e di lupi, lavorando duramente dalle prime luci dell’alba al tramonto. La sua vita era solitaria, lontano da casa, dove tornava di rado per fare le provviste. In mezzo agli alberi, come rifugio, aveva un capanno, costruito nei pressi della spiazza per vigilare l’ardere della cotta, ma abbastanza lontano da essa (dai 10 ai 20 metri) per evitare i pericoli del fuoco. La sua grandezza era proporzionata al numero degli occupanti (dai 6 ai 12 metri quadrati). Costruito con quattro o sei robusti pali che formavano la sua ossatura, il capanno aveva le pareti rivestite di ginestre o di frasche ricche di foglie, tenute ferme da paletti orizzontali, fissati, a loro volta, ai “passoni” principali. Il tetto veniva ricoperto di lamiere ondulate (i bandoni) o, in mancanza di queste, da ginestre e zolle di terra. In un angolo, di solito vicino alla porta d’ingresso, il carbonaio accendeva il fuoco per cuocere i suoi pasti frugali. Il “focolare” era delimitato da un muretto a secco, aveva ai due lati, conficcati in terra, due paletti a “forcella”, dove veniva appoggiato un asse di ferro, al quale si appendeva “lu callaru”. Appoggiato alla parete opposta, veniva sistemato il letto, la “rapazzola”, che era rialzato da terra e costruito con paletti a reticolato e aveva per materasso frasche, foglie e fieno. Sul misero letto il carbonaio dormiva vestito, coperto con vecchi cappotti e sacchi di tela. La “rapazzola” serviva anche da “divano” nei momenti di riposo e da tavolo nell’ora dei pasti. In fondo al capanno riponeva gli attrezzi e le provviste e, alle pareti, appendeva i pochi utensili da cucina. Intorno ad esso, se il terreno era in pendenza, scavava un piccolo fossato per lo scolo delle acque. Non di rado costruiva il nido nelle sue spesse pareti il pettirosso, uccellino non timoroso, che si cibava dei resti del pasto quotidiano. Talvolta le vipere facevano visita al carbonaio. A tale proposito ci piace riportare un brano tratto da un articolo di Venanzo Ronchetti, pubblicato dall’Appennino Camerte nel 1979, il quale descrive un episodio accaduto al carbonaio Bianchi Sante: «Quanno stavo su Barrana, stavo lungu mezzu ‘nsunnulitu vicino a la carbonara; na vibbera me venne su e me la trovo davanti lu musu. Oh! e tu do’ vai? L’arrampo pe’ le mani e pui gli do ‘na stornazzata là pe’ quilli passuncilli! Era mezza ‘ndrommentata, pui gli dico: – Veni co’ me, che adesso te faccio scallà la schiena! – Fici un bucu e la ficcai dentro la carbonara. Pensa, a momenti me venia su la faccia!» Non solo le vipere, ma a volte anche i lupi si avvicinavano! La moglie di Bianchi Giulio racconta che, nel 1946, suo fratello Umberto faceva il carbonaio a Val Petrosa: aveva 18 anni, era quindi un giovanotto. Una notte il lupo gli salì sul tetto del capanno che aveva una parete appoggiata alla montagna. Beh! Ce ne voleva di coraggio!

Il pasto
La frugalità è la caratteristica essenziale del pasto del carbonaio. Esso è fatto per consumarsi all’aperto, in tutta tranquillità, seduti sopra un pezzo di legno, senza le comodità che potrebbe offrire una casa. Per questo, deve essere necessariamente semplice, anche perché non sempre il tempo disponibile è molto e bisogna portarselo in montagna. Oggi, senza dubbio, le cose sono cambiate in meglio e, pertanto, il carbonaio è nella condizione di portare con sé un insieme di vivande più elaborate o, per lo meno, più varie. Tra l’altro, è la moglie che si alza al mattino, all’alba, per preparare il necessario da porre nel tascapane. Un tempo, invece, il carbonaio doveva portare con sé, nel bosco, le provviste per un periodo che poteva arrivare anche a 10-15 giorni. Al momento della partenza, egli riponeva con cura, nel suo tascapane, dello scatolame pronto all’uso e protetto dal suo contenitore sigillato, qualche filone di pane, che induriva rapidamente e che, prima di essere consumato, andava bagnato ad una sorgente. Una parte di esso veniva usato per preparare l’«acquacotta», un piatto di pane bagnato con acqua bollita nel paiolo. Il pane, così bagnato, veniva aromatizzato con aglio, mentuccia, nonché condito con olio e sale. L’altro, invece, veniva destinato alla preparazione di un piatto di “panzanella”, consistente in pane bagnato con acqua fredda e condito con olio, sale, aceto e pepe. Facevano parte delle scorte dei viveri qualche insaccato, alcuni pomodori da affettare e condire con il solo sale, acqua e vino. Tutto qui. Quando la permanenza in montagna si protraeva a lungo, il carbonaio portava con sé gli spaghetti, che coceva in un secchio di lamiera o nel paiolo. Erano questi gli spaghetti alla “carbonara” che ancora oggi le nostre mamme cucinano. Il tutto contribuiva a far sì che egli potesse prepararsi un pranzo semplice, ma ugualmente nutriente, gustoso e genuino, il quale poi acquistava un sapore tutto speciale, perché consumato all’aperto, in contatto con la natura più incontaminata. Gli facevano compagnia e davano un ulteriore ristoro alla sua stanchezza l’ombra di un albero e una sorgente d’acqua limpida e fresca. Questa veniva usata per una rinfrescata al viso sudato o per lavare le poche stoviglie che l’uomo recava con sé, quali la gavetta di alluminio in cui trovavano posto le varie “portate”, un coltello estraibile, un cucchiaio, una forchetta, un bicchiere, non altro. Una cosa, tuttavia, è certa: oggi, come allora, il carbonaio sa assaporare e gustare tutta la semplicità di quella mezz’ora di riposo dedicata al pasto. Anche qui emergono la sua saggezza e la sua educazione al rispetto della natura che lo circonda così da vicino: finito di mangiare, ripone con cura le posate nel tascapane, poi raccoglie minuziosamente, per non deturpare un ambiente sano, i rifiuti che altri lascerebbero sul posto e si siede beato e solo con i suoi pensieri, a godersi una sigaretta od un toscano dal sapore più forte.

La cotta
A questo punto vogliamo descrivere il processo di carbonizzazione vero e proprio, al quale abbiamo in parte assistito, quando siamo andati a far visita ad un carbonaio intento nell’accudire alla sua cotta. Una volta che il legno destinato a carbone è stato tagliato e “sbrollato”, vale a dire ripulito a dovere dai suoi rami più sottili, egli provvede ad avvicinarlo alla spiazza per averlo a portata di mano. Il legname viene suddiviso secondo le varie misure, per scegliere quello più idoneo alla produzione di carbone. In proposito, il carbonaio che ci ha concesso l’intervista, ha precisato che il legno migliore è quello che dà un carbone cosiddetto a “cannello”. A questo punto avviene la sua “pezzatura”, viene cioè tagliato in pezzi da circa mezzo metro di lunghezza. Per questa operazione il boscaiolo si serve di un basamento, il cosiddetto “crociale”, rovesciato e poggiato in terra, sul quale mette il pezzo da tagliare con l’ascia. Nella visita alla carbonaia abbiamo avuto l’opportunità di notare con quale maestria e celerità viene effettuata la pezzatura. Da questo momento inizia la strutturazione vera e propria della cotta, cioè il carbonaio si mette a “comporre”. La cotta dovrà necessariamente avere una forma conica ed un vero e proprio camino che andrà dal centro della base fino al vertice. Il carbonaio procede in questa maniera: pone in terra i primi due pezzi parallelamente e ad una distanza di circa 30 cm. Mette altri due pezzi sopra i primi in modo da formare un quadrato e prosegue così, fino ad una certa altezza. Compone in tal modo la “casella”. Nello stesso tempo comincia ad appoggiare al camino, che va prendendo forma e crescendo in altezza, altri legni, ponendoli intorno ad esso in senso verticale. Così la cotta aumenta le proprie dimensioni, fino a raggiungere quelle desiderate. Queste possono variare, partendo da un diametro di base di tre metri fino a sei nelle cotte più grandi. In questo caso la produzione di carbone può arrivare a qualche decina di quintali. Una volta terminata la “composizione”, il carbonaio si arma di un robusto “zappone” e strappa al terreno circostante le zolle più compatte, con tutta l’erba: le “pellicce”. Esse vengono sistemate in modo da coprire tutta la carbonaia, fino ad un’altezza di circa mezzo metro, avendo cura di lasciare aperte le cosiddette “sboccatore”, destinate a regolare il flusso dell’aria durante la fase della cottura. Egli provvede poi a “passare”, attraverso la “conciarella”, la terra che intanto ha radunato. Questa servirà a coprire definitivamente il resto della cotta, insieme a fogliame e paglia. Alcuni mucchietti di terra sono sempre a portata di mano per essere usati quando, in qualche punto della carbonaia, il fuoco ardesse troppo forte o uscisse con il rischio di mandare in fumo tutto il lavoro. All’uopo sono pronte anche delle taniche d’acqua da usare in caso di un principio di incendio vero e proprio. Per questo scopo un tempo si usavano dei contenitori di legno, le “cupelle”, che venivano portate sul posto a dorso d’asino. Completata la composizione della cotta, il carbonaio si appresta ad accenderla. Ciò avviene in autunno od in primavera ed anche il tempo può dire la sua, nel senso che è estremamente importante riuscire ad intuire se esso sarà stabile per qualche giorno almeno. Ad aiutare la scelta del momento più opportuno sarà, perciò, pure l’esperienza. Questa è certamente una delle fasi più importanti di tutto il procedimento. Il carbonaio appoggia la sua rudimentale scala alla cotta, sale fino alla bocca del camino e vi getta dentro una certa quantità di brace preparata precedentemente, insieme a piccoli pezzi di legno secco che favoriscano l’accensione. Una volta che il fuoco ha “attaccato” nella maniera migliore, la “bocchetta” del camino viene chiusa con frasche, zolle e terra. Da questo momento l’uomo non abbandonerà più il posto di lavoro per tutto il tempo della cottura che può protrarsi per più giorni. La sua sorveglianza sarà continua e non di rado gli capiterà di passare qualche notte “in bianco”. Se non si è preventivamente provvisto del vitto necessario, i familiari provvederanno a fornirgli il frugale pasto. La cotta arde silenziosa, sempre sorvegliata dal carbonaio perché, come egli stesso ci ha detto, è “un fuoco carcerato”, quindi sempre pericoloso. Il fuoco sale lentamente dalla base del camino verso la sua bocca. Il carbonaio provvede periodicamente a “rabboccarlo” con della legna, fino a quando quello non si è riempito completamente di brace. A questo punto, chiusa la “bocchetta”, il fuoco si spande verso il basso ed ai lati della carbonaia. Se il fumo esce uniformemente da tutti i suoi lati, ciò sta a significare che la cottura è avviata in maniera corretta. Intanto il legno comincia a perdere molta della propria umidità, quindi la carbonaia si abbassa lentamente. E’ questo il momento culminante della cottura ed il fumo esce in quantità notevole, al punto che è facilmente visibile da lontano, un fumo dall’odore acre, caratteristico, che sporca il viso e gli indumenti del carbonaio ma che non è dannoso per la sua salute. Si racconta, anzi, che anticamente i malati alle vie respiratorie venissero portati nei pressi della cotta per far loro respirare queste inalazioni ritenute benefiche. Un tempo erano assai numerosi i pennacchi di fumo che si alzavano nel cielo ad indicare la presenza di una carbonaia. Oggi sono quasi del tutto scomparsi dai paesaggi montani. Il fuoco si spegne lentamente. Il carbonaio si augura che tutto sia andato per il meglio. Egli sa che il carbone dovrà essere intero, cotto uniformemente, ben secco, tale da poter essere utilizzato nella maniera migliore dall’acquirente. Prepara i sacchi di juta, la pala, il rastrello, la “‘mpennazzata” e si mette all’opera. Inizia a scoprire la cotta, partendo da un lato e procedendo intorno ad essa fino al punto di partenza. Separa le “pellicce” e la terra dal carbone, con calma e meticolosità le ammucchia da un lato, perché gli serviranno nuovamente. Intanto riempie i sacchi servendosi della pala o della “‘mpennazzata”, una specie di grembiule di juta, legato alla vita, che va riempito e vuotato di volta in volta nel sacco. Quando è pieno, esso viene allineato con gli altri, appoggiato alla siepe che circonda la spiazza. La sfornatura ha una durata che varia da uno a tre o quattro giorni, a seconda della mole della carbonaia, specialmente se era stata predisposta con un centinaio di q.li di legna, da cui si ricavano 20 q.li di carbone. I sacchi, successivamente, vengono legati alla loro sommità e sistemati l’uno sull’altro, pronti per essere trasportati a valle. A sfornatura ultimata, il carbonaio procede alla raccolta della carbonella, cioè dei pezzi di carbone più piccoli. Per fare questo si serve di un sistema quanto mai efficace: con la pala getta in un recipiente pieno d’acqua il materiale rimasto in terra; ovviamente la carbonella resta a galla e si separa da sola dagli altri materiali. Il trasporto del prodotto finito viene effettuato con un mezzo meccanico, se ciò è consentito dalla presenza di una strada e se l’acquirente provvede ad acquistare il carbone sul posto. Altrimenti sono necessari i muli, quando si accede alla cotta attraverso la mulattiera. In tutti i casi esso viene provvisoriamente portato in locali idonei per essere successivamente avviato a destinazione. Poi gli acquirenti, ogni anno in periodi precisi, si presenteranno a trattare il prodotto che, in questi ultimi tempi, è sufficientemente remunerativo se venduto ad un prezzo medio di 70.000 lire al quintale. Attualmente il prodotto raggiunge numerosi centri dell’Italia centrale come Roma, Perugia ed alcune località della costa adriatica. Il suo uso è limitato alla cottura dei cibi in ristoranti esclusivi, ma lo troviamo anche in molte famiglie. Un tempo il carbone veniva addirittura adoperato nella fusione delle testate dei motori degli autobus della capitale.

La somara
Quando i verdi boschi delle nostre montagne non erano ancora deturpati dalle strade che ora li attraversano in tutte le direzioni; quando la natura era incontaminata e l’uomo si avvicinava ad essa e si avventurava nel suo interno in maniera spontanea e naturale senza inquinarla con i moderni mezzi di trasporto; quando non era la plastica a farla da padrona, allora si poteva arrivare ai boschi ed avventurarsi nel loro interno solo attraverso stretti e tortuosi sentieri tracciati dagli animali allo stato libero, oppure attraverso le poche mulattiere esistenti. Ebbene, a quei tempi, l’asino era l’unico mezzo di trasporto su cui poteva fare affidamento il carbonaio. L’asino poteva sopportare carichi notevoli, si accontentava di pasti a base di poche sterpaglie o di povere erbe, era capace di arrampicarsi o di scendere per i sentieri più angusti e scoscesi portava docilmente sulla sua groppa il padrone e gli alleviava così la fatica. Il viaggio, certamente, non era sempre agevole, si protraeva pure per tempi superiori all’ora, doveva essere magari ripetuto più volte prima per portare a monte tutto il necessario per la cotta e poi per riportare a casa le stesse cose, insieme al prodotto del lavoro: il carbone. Questi tempi, oggi, si sono ridotti di molto, perché, proprio per la presenza delle strade tracciate a cura delle Comunanze Agrarie, con il trattore e con l’automobile si giunge facilmente ed in fretta alla carbonaia. Nel periodo in cui si effettua la cottura del carbone, il carbonaio e la sua somara attraversano il paese: la mattina all’alba per avviarsi alla cotta e la sera per tornare a casa. Ogni mattina presto, si avverte di lontano e giunge alle orecchie di coloro che sono ancora a casa, magari a letto, il rumore secco degli zoccoli, che battono aritmicamente sull’asfalto. Esso è tipico, inconfondibile, lento e cresce di intensità man mano che la bestia si avvicina. Ogni tanto, si odono l’incitamento del carbonaio ad accelerare il passo, il tipico “Ah!”, la minaccia di bastonate se l’asina si lasciasse andare ad afferrare di passaggio un ciuffo d’erba, il segnale di fermarsi accanto ad un muretto per poter salire a cavallo, il commento sul tempo che magari minaccia pioggia, come se fosse fatto tra due persone. Il rumore degli zoccoli, come è venuto intensificandosi, così, lentamente si affievolisce e scompare nel silenzio dell’alba, insieme alla voce del “carbonaio”, che si avvia tranquillamente alla sua cotta, solo con i pensieri rivolti al lavoro che l’attende. Arrivato sul posto, il carico viene sistemato a terra, il bastò viene tolto dal dorso dell’asina che resta libera di girovagare per qualche campo, abbandonata a se stessa, e di scegliersi i migliori bocconi d’erba o le ombre più fresche. Il carbonaio resta solo con il suo lavoro, con la sua cotta e con tutti i pensieri che possono passare per la mente di un uomo che rimane in montagna, per circa 12 ore, senza incontrare alcuna persona. Al tramonto ritorna a casa. Il carbonaio e la sua somara attraversano il paese per la strada principale, in senso inverso. Questa volta, però, non sono più soli, perché il paese non è deserto come all’alba, ma, specialmente in primavera, è assai frequentato. E, allora, il carbonaio, vuoi che sia a piedi con l’asina tirata per la cavezza, vuoi che si trovi a cavallo sul basto non proprio morbido e confortevole, saluta grandi e piccoli, amici e sconosciuti. Tutti rispondono perché è conosciutissimo, è un personaggio rispettato da tutti. Lo salutano i bambini i quali sorridono nel vederlo così malvestito e nero in viso che sembra un personaggio teatrale. Lo salutano coloro che passeggiano per la strada o che sono sulla porta del negozio o della casa. Lo salutano gli amici di sempre che lo invitano a scendere per bere un bicchiere insieme. E il carbonaio accetta, deve accettare, perché non si nega ad un amico una bevuta in compagnia. E l’asina? La somara è talmente assuefatta alle abitudini del suo padrone, che è in grado di fermarsi al posto giusto, davanti all’osteria, senza che qualcuno glielo ordini. Si ferma, sembra quasi comprendere l’ordine del carbonaio che le dice di aspettare, mentre la lega ad una inferriata, attende. Questo è il momento più bello: gli avventori che bevono insieme al carbonaio, si avvicinano alla bestia con le… caramelle, si, con le caramelle. Gliele offrono ed essa le afferra delicatamente dalle loro mani con le sue grandi labbra pelose. E’ uno spettacolo incredibile. Tutti sono intorno a lei che allunga il collo fino ad introdurre la testa all’interno del locale, ad entrarvi quasi, se non fosse redarguita dal padrone. Poi riprendono il cammino insieme: il carbonaio davanti e l’asina dietro, per la cavezza, incurante del chiasso che la circonda e delle auto che schiva e sfiora con estrema sicurezza. E’ notte quando giungono a casa per godersi un meritato riposo dopo una lunga giornata di lavoro!

Il carbonaio
A questo punto vorremmo parlarvi del carbonaio che è uno degli utenti della Comunanza Agraria. Abbiamo cercato di conoscerlo meglio perché lo riteniamo una persona un po’ furori del tempo per le abitudini di vita che, a causa del suo lavoro, è costretto a continuare e a consolidare. A Cessapalombo sono rimasti ormai pochi i carbonai e, tra questi, c’è chi si dedica solo saltuariamente alla lavorazione del carbone. I fratelli Bozzi che vi si dedicano con una certa continuità ed è, quindi, forse gli unici e veri carbonai ancora in attività. A Cessapalombo, tuttavia, vivono ancora numerose persone che, in un tempo più o meno lontano, si sono dedicate alla produzione del carbone. Le ricordiamo ancora passare per il paese, all’alba o al tramonto, con il fedele asino, a, volte neri in viso, appunto come carbonai. Li ricordiamo tutti in questa sede per rendere il giusto riconoscimento a uomini che hanno trascorso una vita in un’attività dura e piena di sacrifici. In queste persone potevamo e possiamo apprezzare un insieme di abitudini, di qualità fisiche e morali, di modi di vedere le cose e, soprattutto, il lavoro che li accomunano in una categoria a parte, anche se ovviamente inserita nel nostro contesto sociale. Osservare un carbonaio in attività vuol dire apprezzarne l’esperienza acquisita nel corso di lunghi anni di dura fatica che lo porta ad eseguire con sicurezza e precisione ogni atto o movimento richiesto da questo tipo di lavoro, del quale conosce a fondo ogni aspetto, teorico e pratico. Dai gesti del carbonaio traspare, inoltre, la lentezza, una lentezza che, tuttavia, è indice di meticolosità, di precisione, di accuratezza, di calma interiore, di consapevolezza del fatto che il lavoro del boscaiolo in genere è duro e che esso va affrontato con metodo e calma per poter portare a termine una lunga giornata e magari, una volta giunto a casa, poter accudire ad altre faccende. La sua vita è fondata sull’operosità, ma è anche caratterizzata dalla solitudine. Per molta parte della sua giornata il carbonaio resta solo con se stesso, a contatto con una natura incontaminata che egli ha imparato a sfruttare, che, nello stesso tempo, sa rispettare profondamente in tutte le sue varie forme di vita, animale e vegetale. Egli saprebbe insegnare questo rispetto a coloro che avessero la costanza di seguirlo un po’ nel suo comportamento in genere, quando si trova alla cotta, quando taglia o scava soltanto ciò che gli è necessario, senza mai eccedere. Il coraggio è un’altra delle qualità da apprezzare in chi è nelle condizioni di vivere per lunghi periodi, lontano dal mondo abitato, con la probabilità, seppur remota, di trovarsi ad affrontare situazioni di pericolo, come l’incendio della sua cotta, un animale selvatico od un infortunio, senza avere la possibilità di essere soccorso da qualcuno. Il carbonaio sa queste cose e, perciò si comporta rispettando certe regole ispirate ad un’estrema prudenza, soccorso dall’esperienza consolidata nel tempo. Se non si va a fargli visita in montagna, difficilmente si può parlare con lui che, come abbiamo detto altrove, si reca al lavoro all’alba e torna a casa a sera inoltrata. Non è così, tuttavia, durante la stagione invernale. Allora lo si trova in giro per il paese, all’osteria e al bar: egli vive una vita normale, insieme ai familiari ed agli amici e, quindi, capita l’occasione dì disputare una partita a carte con lui, di parlargli, di scherzarci, insomma di poterlo conoscere a fondo. Di conseguenza è possibile apprezzarne la semplicità, l’ottimismo di chi è abituato ad affrontare una vita dura, la serenità di chi vive a contatto diretto con la natura, la saggezza di chi proviene dal mondo rurale, una saggezza ormai rara, che è data di trovare solo in poche persone. Questi personaggi destinati a scomparire, infatti, lasceranno un’impronta, un esempio da imitare pure se il mondo è indirizzato verso altre prospettive. Quasi in ogni famiglia di Cessapalombo, e spesso anche in quelle delle frazioni vicine, c’era una persona che si dedicava, almeno saltuariamente, a questo lavoro. Nel passato non c’era molta scelta tra l’emigrazione, il lavorare la terra, la pastorizia e lo sfruttamento del bosco. Noi non siamo testimoni di quel fervore di attività nei boschi delle nostre montagne. Sono gli ultimi carbonai, tuttavia, a raccontare come allora, tra gli alberi, ci fosse gente, ci fosse vita. Poi, intorno agli anni ’60, è arrivato il gas da cucina. Esso si è dimostrato subito più pratico del carbone ed in poco tempo lo ha sostituito nella cottura dei cibi i quali, se hanno guadagnato in quanto a tempo di preparazione, hanno perso, senza dubbio, il loro antico sapore genuino. Il progresso, ciò nonostante, voleva questo, pagando un prezzo, a volte alto, dovuto alla pericolosità dello stesso gas. Di conseguenza è diminuita la richiesta di carbone in maniera netta e coloro che lo producevano hanno dovuto dedicarsi ad altre attività. Ora il carbone si trova in ogni famiglia, ma sta riposto in un angolo e viene usato solo raramente, quando si vuole assaporare ancora una volta il gusto di una bistecca alla brace o di una bella salsiccia rosolata. Lo spopolamento generale del paese ed il sacrificio continuo richiesto dal lavoro del carbonaio, inoltre, hanno contribuito in maniera determinante a ridurne il numero a pochissime unità. E’ ovvio, poi, che i giovani di oggi cerchino occupazioni maggiormente remunerative, meno faticose, che lascino loro del tempo libero da dedicare alla propria persona, alla famiglia ed agli amici. Di conseguenza sono rimasti attaccati al lavoro del carbonaio soltanto coloro che vi si dedicavano già da tempo: le persone anziane. Ma quanto dureranno ancora?

La casa del carbonaio
L’atteggiamento di queste persone sembra che facciano parte di un mondo che non è più, presi come siamo dalla nostra fretta e dal nostro egoismo. Le case presentano le vecchie strutture murarie, i pavimenti di mattoni rossi, le travi di quercia, grosse e squadrate alla meglio, le finestre piccole e protette dagli antichi «scuri», l’ingresso ampio, la fontana all’aperto, la stalla di sotto, il magazzino. All’interno tutto è come una volta. Un grande camino domina la cucina. Nel suo muro di fondo si apre la bocca del forno dove ci cuociono ancora il pane fatto in casa. Gli alari e tutti gli altri utensili per maneggiare il fuoco denunciavano la loro veneranda età, così neri e arrugginiti. Sul ripiano del camino c’era di tutto: una spazzola, vecchie foto, un antico macinapepe tutto affumicato, dei barattoli di varia grandezza, messi lì per contenere tutto quanto capita per le mani, un ferro da stiro almeno centenario, ed altre cose. Ai lati una vecchia sdraia non proprio intonata con il resto dell’arredamento ed una sedia di paglia, di quelle fatte a mano, dura e pesante. Il fuoco ardeva pigro, alimentato da due grossi tronchi. Da una parte c’era un vecchio tavolo in legno massiccio, attorniato da alcune sedie impagliate, con sopra la spesa appena fatta. Di fianco al camino stava l’«appiccarame», un telaio di legno con varie traversine, dove erano appesi tutti gli utensili da cucina: pentole, tegami, colini, mestoli, coperchi, teglie, pentoloni e tante altre cose in un disordine solo apparente. Sotto una stretta finestra c’era il lavandino con l’acqua corrente, cosa che non abbiamo trovato nell’altra abitazione, un lavandino in cemento grezzo con sopra i piatti appena lavati ed il vaso (il boccale) per spillare il vino dalla botte, il quale forse si trovava lì solo per ornamento. Ci ha anche colpito una macchina da cucire vecchissima e gli alunni si sono interessati della sua indubbia età, la quale, però, non impediva che essa fosse perfettamente funzionante. In quella cucina trovava posto di tutto, ossia tutto quello che, in una abitazione moderna, si va a riporre nell’armadio, nel magazzino, nel garage o dietro una tenda. Abbiamo notato la “stadiera” nera e unta, la brocca per l’acqua, le secchìe per il bucato a mano, “lu corvellu”, una specie di cesto rotondo e basso, con il quale una volta si separava il grano dalla pula, alcuni recipienti di rame come lo scaldaletto, la “cuccuma”, un catino per lavarsi le mani e tante altre cose. In un angolo, una vecchia scala in legno, che portava al piano superiore, ora sostituita, in altre abitazioni, da quella in cemento armato. Nel sottoscala c’era ciò che faceva pensare ad un ripostiglio: casse di bibite, bottiglie di pomodoro in conserva, secchi vuoti, alcuni canovacci, un paio di stivali e così via. Le pareti erano abbellite esclusivamente con foto di persone care, alcune delle quali era chiaro che fossero vissute qualche secolo prima, e con immagini sacre. In una delle due case era allestita una cappellina privata dove, fino a poco tempo fa, si celebrava la Messa. Nella casa di un carbonaio, una di quelle di una volta, insomma, non sono i mobili a fare bella mostra di sé, bensì sono tutti gli oggetti utili e gli utensili che vengono sistemati in ogni angolo libero. Però non c’è disordine, non si esce da lì con l’impressione di poca cura, anzi, si esce da un mondo dignitoso nella sua arretratezza. Aver constatato la capacità di quelle persone di saper apprezzare cose semplici, antiche, non sempre funzionanti, ma ugualmente care a chi è vissuto una vita con loro, lascia ammirati.

Gli indumenti del carbonaio
Gli indumenti del carbonaio debbono rispondere ad un’esigenza di semplicità e di praticità perché anch’essi fanno parte di un insieme più ampio di attrezzi, utensili, viveri e mezzi vari, i quali vanno a formare un equipaggiamento in grado di rendere possibili e accettabili la sua vita all’aperto ed il suo duro lavoro. Oggi il boscaiolo non ha la necessità di vestirsi in una maniera precisa. Certo, il mestiere gl’impone, ad esempio, l’ombrello da usare in caso di pioggia improvvisa, una maglia pesante che possa difenderlo dal freddo e assorbire il sudore. E’ pure indispensabile che egli calzi un paio di scarponi alti e muniti di una suola di solida gomma che aderisca il più possibile al terreno e che indossi un paio di pantaloni pesanti che lo proteggano da eventuali rettili o dalle ferite che i rovi del sottobosco potrebbero causargli. In quanto a quello che i carbonai indossavano nel passato, abbiamo avuto le notizie necessarie da un’intervista, da vecchie fotografie e da informazioni chieste a chi, una volta, lavorava nel bosco. Prima di tutto occorreva che gli indumenti fossero robusti, di velluto o di panno, in tinta scura al fine di non evidenziare troppo i segni del carbone. Gli scarponi erano pesanti e chiodati, mentre, in caso di freddo o di notte, il carbonaio indossava lunghe mantelle nere o cappotti militari lunghi fino ai piedi, grigioverdi e pesanti fino all’inverosimile. Un cappello scuro, dalla falda larga e irregolare, completava il tutto. Un grembiule di juta, la “pannella”, lo proteggeva quando era al lavoro. Il carbonaio spesso aveva la necessità di lavorare anche sotto la pioggia ed allora si preparava un vero e proprio cappuccio con un semplice sacco di juta che lo copriva dalla testa fino alle spalle. Tutto qui, perché nel lavoro del carbonaio non può interessare l’aspetto esteriore che, a volte, può sembrare anche strano.

Tratto da “I nostri boschi e gli ultimi Carbonai”
Scuola Elementare Statale – Anno scolastico 1985-’86
«G. Leopardi» Serravalle di Chienti (MC).

Per approfondimenti maggiori: www.turismo.cessapalombo.sinp.net

 

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