Abbazia di Santa Maria di Portonovo – Ancona (AN)


 

Cenni Storici

La Chiesa di Santa Maria di Portonovo di Ancona è un gioiello di architettura romanica, posto in uno scenario naturale di suggestiva bellezza, affacciata sul mare Adriatico. Le sue mura, al di là degli aspetti architettonici, sono rassicuranti. Entrandovi ci si libera di ansia, turbamento, trovandosi a tu per tu con lo spirito religioso medievale fatto pietra. Questa chiesa, col suo adiacente monastero (ora distrutto), era l’unico edificio di cui si ha notizia storica a trovarsi nella zona dei due golfi di Portonovo. Per circa 680 anni è stato così, poiché la Torre Clementina, poco distante, venne costruita solo nel 1716 ed il “giovane” Fortino risale solo a dopo il 1811. Se s’immagina quindi questo scenario: monte, mare, chiesa, monastero; niente borgo, niente strade, se non un angusto sentiero che serpeggiava sul monte, aree paludose nelle vicinanze…., si descrive un ambiente certo non molto dissimile da quello che i monaci Benedettini solitamente prediligevano per la costruzione dei loro edifici monastici.
Quest’ordine religioso fu fondato da San Benedetto da Norcia nel VI secolo, stabilendo che i suoi monaci avrebbero pregato e lavorato. “Ora et labora” era la sintesi della Regola, l’insieme di norme che Benedetto raccolse per dare direttive ai suoi confratelli sull’organizzazione della vita monastica, e in cui queste due attività erano minuziosamente cadenzate nel corso della giornata. Nel 1177 Papa Alessandro III decretò che nel convento di Portonovo si dovesse osservare inviolabilmente la regola benedettina. Un passo della Regola stessa fornisce forse la spiegazione in merito all’assenza di “firma dell’autore” in relazione alla costruzione della chiesa: “…se nel monastero vi saranno degli artigiani, esercitino la loro arte con grande umiltà, sempre che lo permetta l’abate…“. Non deve quindi stupire che non ci sia traccia del nome del magister lapidum o del magister fabrorum autore delle magnifiche forme della Chiesa di Santa Maria, che nonostante “l’acuto dente del tempo” rimangono ancor’oggi superbe. Questo rientra certo nell’ottica benedettina. Umiltà, sinonimo di anonimato. Ma il lavoro del benedettino era anche quello duro, durissimo dei campi, delle selve; si hanno notizie di disboscamenti, di deviazioni di corsi d’acqua per creare una difesa a chiese, monasteri e possedimenti monastici. Le generazioni seguenti hanno dovuto e debbono, ancora oggi, molto a questo ordine, silenzioso custode tra l’altro di biblioteche ed archivi di inestimabile valore storico- artistico, nonché, ovviamente, religioso. I Benedettini, forse di provenienza franco-normanna, costruirono quindi la Chiesa dedicata a Santa Maria, secondo lo stile lombardo, nella baia di Portonovo, su un piccolo rialzo roccioso che si protendeva nel mare, immerso nel verde della macchia mediterranea. La datazione della sua edificazione è controversa e varia tra l’XI secolo (secondo: l’arch. Giuseppe Sacconi, soprintendente ai monumenti delle Marche e dell’Umbria dal 1891 al 1902: Luigi Serra; Marinelli e Aurini), la metà dell’XI secolo, non anteriore al XII secolo (secondo lo storico dell’arte Wolfgang Krönig), completamente ricostruita nel XIII secolo (secondo l’ing. Costantino Costantini). La prima informazione sul convento e la chiesa di Portonovo sembra risalire al 1034: “L’anno 1034 di nostra salute un tal Stefano di Germano del quondam Teobaldo Grimaldi dal Poggio, castello della diocesi anconitana e più vicino al detto luogo, fece donazione di 35 misure di terra, chiamate in quel tempo “modioli”, accioché in quel sito dove al presente si vedono le vestigia di detta abbadia e chiesa ancora in essere, si edificasse un tempio alla Beatissima Vergine Maria: come rogo in detta donazione Michele notaro anconitano, il 7 luglio anno 1034, copia del qual rogito si trova nell’archivio delle scritture del capitolo di S. Ciriaco di Ancona”. Questo documento purtroppo viene solamente riportato, in quanto, malauguratamente, l’originale è andato perduto, e, pertanto, non ne è certa l’autenticità. Secondo altri, l’abbazia sarebbe stata donata nel 1038 ad alcuni canonici dal conte Ugo di Mezone dei Conti Cortesi di Sirolo, insieme alla moglie Adelasia, Amezone (o Amizzo) di Maurizio e Uffredo (o Aufrido) di Amezone. L’importanza del monastero di Portonovo tra l’XI ed il XIII secolo è dimostrata dal fatto vi soggiornò fino alla morte S. Gaudenzio, che, dal 1030 circa al 1042, fu vescovo di Ossero o Ossaro nell’attuale Croazia. La sua fermezza nel difendere la santità del sacramento del matrimonio lo obbligò ad allontanarsi dalla sede vescovile, riparando prima a Roma, presso il papa Benedetto IX, quindi in Ancona, dove chiese asilo alla Comunità benedettina di Portonovo e dove rivestì l’abito monastico, ricevendolo dalle mani di San Pier Damiani. La permanenza presso il Monastero di S. Maria di Portonovo perfezionò la sua vita e, secondo quanto tramandano le tradizioni, la sua già alta spiritualità venne attestata dal dono dei miracoli. Concluse la sua esistenza nella stessa Abbazia, il 31 maggio dell’anno 1044 ed ivi fu sepolto, continuando la sua azione taumaturgica anche dopo la sua morte. Gli Ossaresi non vollero però che il loro Vescovo rimanesse lontano da loro e ne richiesero il corpo; avutone un rifiuto, non ebbero timore di rubarlo, riportandolo nella loro città dove ancora si trova. Ugualmente, i ripetuti privilegi pontifici concessi all’Abbazia da parte del Papa Alessandro III nel 1177, del Papa Lucio III nel 1184 e del Papa Onorio III nel 1222, e da vari imperatori testimoniano dell’importanza e della ricchezza raggiunte dal monastero di Portonovo. Nel 1225 si hanno notizie di un suo ampliamento voluto dai conti Cortesi di Sirolo. Purtroppo nell’arco di meno di trecento anni il monastero benedettino di Portonovo perse la sua prosperità. Infatti, a causa di terremoti e frane, si verificarono ripetuti crolli di “lame” di pietra dal Monte d’Ancona (come veniva chiamato all’epoca il Monte Conero), uno dei quali uccise l’Abate ed alcuni confratelli. I monaci si rivolsero quindi nel 1319 al Vescovo di Ancona, Nicolò degli Ungari, chiedendogli di potersi trasferire in altro luogo. Così, il 17 gennaio 1320, i benedettini lasciarono il convento di S. Maria di Portonovo per installarsi ad Ancona nel monastero di San Martino di Capodimonte, nell’attuale via Francesco Podesti, quasi di fronte all’attuale Chiesa dell’Annunziata. Ciò segnò l’inizio della decadenza del monastero di Portonovo. I monaci benedettini ottennero di poter mantenere tutti i loro privilegi e diritti e rimasero per oltre un secolo nel convento di San Martino di Ancona, la cui chiesa venne intitolata a S. Maria di Portonovo La loro permanenza in questo convento si protrasse fino al 1436, quando, per bolla del papa Eugenio IV, l’Abbazia, il monastero, le chiese, i poderi e i diritti furono donati alla Mensa capitolare dei canonici della Cattedrale di Ancona. Così cessò la presenza benedettina ad Ancona. Una volta pervenuto sotto la giurisdizione del Capitolo della Cattedrale di Ancona, il complesso degli edifici di Portonovo siti sulla costa fu affidato dal 1436 ad alcuni monaci eremiti, ma essi rimasero esposti alle frane ed alle mareggiate, nell’indifferenza dei religiosi ivi residenti. Nel 1518 una incursione barbaresca contribuì alla definitiva rovina dell’edificio conventuale; esso, già molto compromesso a causa delle continue frane, crollò del tutto, mentre la chiesa resse e regge tutt’ora a mostrare la sua vittoria sulle forze ostili della natura. Dopo questa data si hanno poche notizie del luogo; nel 1669 il campanile appariva ancora esistente, elemento che figurava anche in un rapporto del cardinal Buffalini del 1769, che attestava invece la definitiva rovina del monastero. Durante il periodo napoleonico la chiesa venne usata dalle truppe come magazzino e ricovero animali, arrecandole numerosi danni e asportando da essa e dalle rovine del convento materiali da costruzione (che vennero utilizzati per l’edificazione del vicino Fortino), riducendola così in un grave stato di dissesto. Nel 1837, dopo aver prestato aiuto ai colerosi di Ancona, e specialmente ai soldati francesi del re Luigi Filippo, si stabilì a Portonovo l’Abate Pietro Francesco Casaretto. Egli prese in custodia la Chiesa che minacciava rovina e, parte con denaro proprio, parte con offerte altrui, vi fece importanti riparazioni, ricostruendo il pavimento e, sia pure con scarso senso artistico, intonacando le pareti. Nel 1840 ritrovò il sarcofago che avrebbe dovuto contenere le ossa di San Gaudenzio. Negli ultimi tempi del Governo pontificio, per iniziativa principalmente di Mons. Gabriele Ferretti (Ancona – 1795; Roma – 1860), Ministro dei lavori pubblici, e di Mons. Amici, Commissario straordinario delle Legazioni, una notevole somma venne destinata al restauro del tempio, anche se le successive vicende politiche impedirono la costruzione di una scogliera a protezione delle sue fondamenta. Dopo l’annessione delle Marche al Regno d’Italia nel 1860, l’intera località di Portonovo fu acquistata da privati che ridussero la Chiesa a legnaia e magazzino, mentre il cenotafio di San Gaudenzio andò disperso. Preoccupato da questo stato di cose, il prof. Carisio Ciavarini, Regio Ispettore dei monumenti, fece abbattere le case annesse alla Chiesa e volle che la chiave della stessa fosse consegnata alla Guardia di Finanza. Ma il vero benemerito della conservazione di S. Maria fu l’architetto Giuseppe Sacconi, soprintendente ai monumenti delle Marche e dell’Umbria dal 1891 al 1902, che, entusiasta dell’architettura della chiesa che giudicava “il più completo monumento lombardo che decori le rive adriatiche da Ancona a Brindisi“, ideò, sotto la direzione propria e dell’ing. Pisani Dossi, architetto dell’Ufficio regionale dei monumenti, tutti i restauri necessari perché essa ritornasse al suo primitivo splendore. Così nel 1894 si iniziò il primo restauro sistematico del complesso, con il consolidamento delle strutture e la rimozione degli intonaci ottocenteschi dalle pareti: “L’intonaco, onde erano state coperte le malconce pareti, venne tolto via; rimessa in vista l’antica struttura di pietra, fu efficacemente rinsaldata con cemento di pozzolana. Una valida riparazione fu arrecata al tetto e fu interamente racconciata la cupola“. Fu anche rafforzata la muraglia di sostegno alla rupe su cui s’innalza la Chiesa, cominciata nel 1883. Il restauro della Chiesa fu ultimato sotto il successivo soprintendente Luigi Serra; essa fu riaperta al culto nel 1934. Nuovi restauri dell’intero complesso furono stati intrapresi tra il 1988 e il 1995 dalla Soprintendenza ai Beni Culturali di Ancona, mentre nel 2002 furono effettuati scavi archeologici che hanno messo in luce un cimitero medievale e hanno permesso di rintracciare le fondazioni della torre campanaria, nota dai documenti, ma non ancora localizzata e di individuare strutture più tarde intorno alla chiesa, come l’abitazione eremitica. Grazie al serio restauro condotto dal Sacconi nel 1894 ed a quello di quasi un secolo dopo curato dalla Soprintendenza, la Chiesa ha riacquistato la sua splendida veste di millenario testimone dell’opera dell’uomo nel suo cammino di fede. E per dirlo con parole dello stesso Sacconi, la chiesa è “un vero miracolo di armonia“.

Architettura interna

La sua struttura architettonica è suggestiva e singolarissima, mirabile fusione del concetto originale di una chiesa dalla pianta a croce greca, con la forma classica della basilica romana e con lo schema di una “chiesa a cappelle parallele“, con cinque navate, di cui le due più estreme, a destra e a sinistra dell’altare maggiore, di lunghezza molto ridotta rispetto alle altre e concluse da absidi semicircolari. La navata centrale è più ampia e termina anch’essa in un’abside semicircolare; al centro essa è interrotta da una campata più lunga, corrispondente al vano del tiburio, l’elemento architettonico che fascia la cupola. La pianta del sacro edificio, variando le dimensioni, è pressoché identica a quella della Chiesa dell’Abbazia di Cerisy-la-Fôret in Francia. In una pianta della chiesa di S. Maria pubblicata nel 1929 si notava un corpo di fabbrica che è oggi scomparso. Le mura esterne della chiesa sono in pietra bianca del Conero, impreziosite da lesene e archetti pensili. Notevoli nell’edificio sono l’originalità, la grande armonia delle proporzioni delle parti dove simmetria e asimmetria convivono quasi magicamente, come emerge da tanti particolari piccoli e grandi. La presenza delle due piccole absidi che richiamano quella principale esalta l’andamento longitudinale, mentre la pianta centrale è sottolineata, all’incrocio delle navate, dalla cupola. Quest’ultima, di ispirazione bizantina, si erge all’esterno su un tamburo quadrato, che nel suo sviluppo in altezza si trasforma in una sorta di torre ottagonale. La cupola è illuminata all’interno da quattro coppie di bifore ed è ornata nei pennacchi da una decorazione a mensola, tipo quella a ghiera dentata, con quattro nicchie, che probabilmente un tempo ospitavano statue. Le finestre, presenti lungo tutto il perimetro dell’edificio, sono costituite, a differenza delle aperture nella cupola, da monofore a strombatura doppia; va rilevato che le finestre delle due navatelle di sinistra e di destra non sono state aperte al centro dell’abside, ma rispettivamente più verso sinistra l’una e più verso destra l’altra: questo per ottimizzare il passaggio della luce, sfruttando al massimo questa fonte d’illuminazione. La combinazione dell’ingresso della luce consentito dall’alto dalle aperture nella cupola e nel tamburo, con quello dalle finestre cambia addirittura la percezione visiva delle dimensioni della chiesa, dando l’impressione di trovarsi all’interno di un edificio di proporzioni assai maggiori, come ebbe a rilevare l’ing. Costantino Costantini, il quale riteneva mirabile che, con grande semplicità di mezzi, si fossero potuti ottenere effetti potentissimi, come appunto quello che la Chiesa compaia assai più grande di quanto in realtà non sia. Infatti, le dimensioni reali sono complessivamente di un’area di meno di 250 mq, con 26,63 m. di lunghezza e 18,93 m. di larghezza; in così poco spazio sono collocate 5 navate parallele, che si restringono dal mezzo verso i lati, divise da 12 colonne e dai quattro pilastri che sostengono la cupola originale, che sorge dal centro come una torre, di cui all’esterno ha tutta l’apparenza. A dare ulteriore luce all’interno della chiesa, nella facciata è stata aperta una finestra quadrangolare dai vetri piombati, come quelli di tutte le altre finestre. Tranne la porta principale, le porte sono aperte oggi solo a sinistra, sul lato verso il mare, mentre nella navatella di destra, di costruzione successiva a quella della chiesa, solo dall’interno è possibile dedurre, dalla diversa muratura con un’architrave in legno che chiude un passaggio, la presenza di una precedente apertura ora murata, simmetrica a quella tuttora esistente a sinistra. Appoggiata alla originaria apertura della porta, vi è una nicchia aperta e priva oggi di qualunque immagine. E’ probabile che questa nicchia, incorniciata di pietra bianca, contenesse l’immagine della Vergine o di un venerato santo, voluto come ex voto, caso non inconsueto sia nelle Marche (vedi il caso di S. Maria a piè di Chienti, ovvero della basilica della Santissima Annunziata a Montecosaro (Mc), in prossimità dell’altare superiore), che in tante altre realtà disseminate nel ricchissimo territorio del nostro paese. Sul lato verso il mare, in corrispondenza con un corpo di fabbrica oggi scomparso, sopra la seconda porta sul fianco, si rileva una lunetta, che probabilmente era decorata da un bassorilievo o da un affresco raffigurante la Madonna e il committente, e che reca una scritta, purtroppo oggi talmente frammentaria da renderne molto difficile la decifrazione: (MT..IM..EC…RIS ET CALOI…?). La navata centrale è coperta da una volta a botte, mentre le altre navate presentano voltature a crociera; il vestibolo è di edificazione successiva al corpo di fabbrica originario. Una particolarità è rappresentata dai capitelli, sia quelli delle colonne delle navate che quelli delle semicolonne pensili, che potrebbero essere schematici discendenti della famiglia detta “a foglie d’acqua“, alla quale appartengono quelli della cripta della Chiesa di S. Eusebio di Pavia. Sui capitelli delle semicolonne pensili appaiono alcuni simboli. Fortunatamente, non è stato manomesso il pavimento in cotto rosso e pietra giallo-ocra, alternati in un sobrio gioco geometrico, che, per contrasto con il bianco della pietra del Conero del resto dell’edificio, determina un effetto cromatico di rilevante intensità. L’altare maggiore, in semplice pietra, conserva per le celebrazioni liturgiche l’orientamento verso l’abside tipico del rito preconciliare. La pietra d’altare originale, salvata dalla distruzione all’epoca della costruzione del vicino Fortino napoleonico, per il quale vennero utilizzati anche blocchi di pietra provenienti dalle rovine del convento benedettino, fu portata nella Cattedrale di S. Ciriaco di Ancona, dove tuttora si trova. In passato, sopra l’altare era collocata una raffigurazione della Madonna, molto venerata, che venne ritrovata in pessime condizioni da un contadino nel bosco presso la chiesa, dove era stata gettata chissà a seguito di quale furia vandalica, presumibilmente intorno agli anni 1840. Il devoto contadino, restato anonimo, fece in modo che questa tela venisse restaurata. Quest’antica immagine sacra è stata sostituita nella chiesa di S. Maria di Portonovo da un dipinto moderno di ispirazione bizantina, raffigurante “S. Maria Stella del Mare”, ritratta secondo la classica iconografia della Madonna di Vladimir, opera di Gregorio Maltzeff, artista russo cattolico, che lo realizzò, dopo il 1933, per conto della famiglia romana Fumasoni Biondi, che poi la donò alla chiesa. Nel maggio 1980 questa icona suscitò lo stupore e l’ammirazione del grande regista cinematografico russo Andrej Tarkovskij, incredulo di aver trovato un’icona ortodossa in una chiesa cattolica.
Il regista russo tornò nel marzo del 1982 a Portonovo per rendere omaggio alla “sua” Madonna di Vladimir.

San Pier Damiani

La grande importanza storica e spirituale di questo sito è testimoniata dal fatto che forse nell’antico monastero oggi scomparso visse San Pier Damiani, anch’egli monaco benedettino, personaggio tra i più importanti della Chiesa dell’XI secolo.
Dante nel “Paradiso”, canto XXI (120/123), gli fa affermare: “IN QUEL LOCO FUI IO PIER DAMIANO E PIETRO PECCATOR FUI NELLA CASA DI NOSTRA DONNA SUL LITO ADRIANO.”.
Si riferiva forse alla Chiesa di Santa Maria a Portonovo ? Nel 1921 una lapide con i due suddetti versi danteschi venne murata all’interno del vestibolo della chiesa. Dal piccolo spiazzo sito sul retro della chiesa è possibile godere di una splendida vista sul Mare Adriatico e la costa del Conero.

Per approfondimenti maggiori: www.baiadiportonovo.it

 

Mappa

Link coordinate: 43.560884 13.602134

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