Museo del Monastero delle Orsoline – Calvi dell'Umbria (TR)


 

Cenni Storici

Si trova negli ambienti del convento delle Orsoline.
Nel 1619 il notabile Demofonte Ferrini stabilì nel proprio testamento che, alla fine della discendenza maschile, i suoi beni fossero destinati alla fondazione di un monastero dedicato a santa Brigida.
Le sue disposizioni si realizzarono con la morte dell’ultimo erede, nel 1715.
Si edificò un monastero destinato ad accogliere suore benedettine provenienti da Narni che, in un primo momento, furono sistemate nella chiesa di San Paolo.
Per collegare questa chiesa, successivamente intitolata a santa Brigida, con l’ex palazzo Ferrini ci si rivolse a padre Gregorio, della Compagnia di Gesù, che realizzò un’ala con un maestoso coro e un piccolo parlatorio.
Nel 1718 il vescovo di Narni lo affida alle Orsoline che ne ampliarono il complesso.
L’’incarico fu dato all’architetto Ferdinando Fuga (1699-1781), interprete del barocco borrominiano che tra l’altro aveva progettato il Palazzo della Consulta al Quirinale e negli stessi anni stava erigendo la facciata della basilica di Santa Maria Maggiore a Roma.
Fuga, che aveva due sue figlie nel convento delle Orsoline, impostò un impianto a quattro ali per due piani di altezza che riutilizzava parte delle murature costruite in precedenza.
Intorno a un’ampia corte interna trovavano posto, su tre lati, le celle, mentre il quarto doveva essere attraversato da un corridoio di collegamento.
La struttura, considerevole esempio di architettura italiana del XVIII secolo, nasce quindi dall’accorpamento del cinquecentesco palazzo Ferrini con due chiese, a destra quella di Santa Brigida, e a sinistra, più in basso, la chiesa di Sant’Antonio Abate, unificate da una monumentale doppia facciata in cui il motivo a edicola timpanata, scandita da paraste, nasconde le diverse proporzioni delle chiese retrostanti, in modo tale che scenograficamente apparisse come un’unica chiesa con due entrate.
Il lavoro fu completato tra gli anni 1739 e 1743 e comportò lo scorciamento della chiesa di Sant’Antonio Abate per realizzare il nuovo coro.
Per moltissimi anni, fino al 1996, è stato abitato dalle suore Orsoline, dal 2002 ospita il Museo che raccoglie la collezione delle opere più significative di Calvi.
L’allestimento museale è costituito da più di centoventi opere d’arte, raccolte e conservate presso il rinnovato museo, il nucleo originario era costituito da opere databili tra il XVI e il XVIII secolo provenienti dalle demaniazioni postunitarie e dallo stesso monastero, con interessanti influenze dell’arte romana e abruzzese, a conferma della particolare collocazione di Calvi a confine fra Umbria, alto Lazio e Abruzzo.
Nel 2012 la raccolta è stata notevolmente ampliata grazie al generoso lascito ricevuto dalla prestigiosa famiglia Chiomenti – Vassalli che ha donato all’amministrazione comunale la straordinaria Collezione “Pasquale Chiomenti – Donata Chiomenti Vassalli”.
Un attento lavoro di ricollocazione e riprogettazione ha dato vita ad una nuova dimensione visuale e allo stesso tempo funzionale, rivolta principalmente alla fruizione pubblica di questa esclusiva ed unica collezione d’arte.
 
 
 

PRIMA SALA

La prima grande sala contiene tutte le opere lignee ospitate nel Museo, le serie dei Papi e quella dei Disegni e Incisioni della Collezione Chiomenti-Vassalli.
Tra i tanti ritratti dei Pontefici spicca quello di Papa Clemente IX, opera di Giovanni Battista Gaulli, detto Baciccio.
Nelle vetrine sono collocate la collezione di monete e le sculture.
Il pannello centrale ospita le opere più antiche della collezione, come il Vanitas Memento Mori risalente alla prima metà del XVI secolo, magnifica opera fiamminga della cerchia di Jan Sanders van Hemessen, di una estrema realistica sensualità, con una donna con i turgidi seni appena velati che colpiscono non certo per il richiamo alla morte e alla vanità.

Ritratti di Demofonte e Gioacchino Ferrini
Anonimo della seconda metà del XVII secolo e di Francesco Demofonte Ferrini, Anonimo, datato 1683,
Questi ritratti rappresentano due esponenti della famiglia Ferrini, alla quale si deve, come detto, la costruzione del palazzo che ospita il museo.

 

Ritratto del papa Gregorio XIV
Iacopino del Conte Firenze, 1513 – Roma, 1598 Olio su tela, cm. 108 x 92
Il cardinale Nicola Sfrondati (Massa Lombarda, 1535 – Roma, 1591) fu eletto papa nel 1590 e regnò meno di un anno. È identificato da una scritta in alto a sinistra “GREGORIUS XIV“.
È visto di trequarti seduto in una poltrona, con una lettera nella mano destra mentre sul tavolo a destra sono rappresentati un crocifisso, un orologio portatile, un campanello ed un libro.
I tratti del pontefice sono pacati, il corpo volge di profilo a destra, ma il viso è rivolto allo spettatore.
Iacopino del Conte è uno dei rappresentanti di spicco della cultura manierista a Roma ed è oggetto di una particolareggiata biografia da parte di G. Baglione, Le vite de’ pittori, scultori et architetti, Roma, 1642, pp.75/76, nella quale egli riferisce che questo allievo di Andrea del Sarto venne a Roma sotto il pontificato di Paolo III e da allora vi visse: “dietesi a far de’ ritratti, li quali assai bene egli conduceva, e ritrasse il gran pontefice Paolo, e tutti gli altri Papi del suo tempo, e ne acquistò tal nome e grido che fece ritratti anche per tutti i Cardinali“.

 

Ritratto del papa Benedetto XIV
Anonimo Olio sutela, cm 78 x 66.
ISCRIZIONI: in alto a destra “BENEDETTO XIV”.
Eletto papa nel 1740, Prospero Lambertini si distinse per una serie di riforme pastorali che risentivano dello spirito moderno illuminista.
Molto attivo nel campo del mecenatismo artistico e scientifico, subito dopo la sua elezione commissionò il proprio ritratto ufficiale a due famosi pittori attivi a Roma: Agostino Masucci e Pierre Subleyras.
Questa tela deriva dall’immagine del pontefice dipinta dal Subleyras della quale riprende la posa di profilo verso destra, il prato benedicente e l’attenzione per i particolari decorativi della stola e del polsino del camice.

 

Ritratto del papa Gregorio XIII
Tiburzio Passerotti Bologna 1553 – 1612, Olio su tela, cm 148 x 109
Seduto sul seggio, il pontefice appoggia la mano sinistra inanellata sul bracciolo della sedia e con la destra tiene un fazzoletto.
Il volto è sereno e colloquiante e gli occhi fissi sul riguardante.
Ugo Boncompagni salì al trono in età avanzata nel 1572 e vi rimase fino al 1585, anno della sua morte. L’impostazione del ritratto, con lo sguardo vivo e l’espressione serena, avvicina quest’opera alle prove di Bartolomeo Passarotti, padre di Tiburzio, e ai famosi ritratti ufficiati di Sapone Pulzone, che il pittore sicuramente conosceva.

 

Ritratto di papa Alessandro VIII
Anonimo, fine XVII secolo Disegno a penna, cm 40 x 60
Il disegno rappresenta il ritratto di Pietro Ottoboni, eletto al soglio pontificio con il nome di Alessandro VIII il 6 ottobre 1689. La sua effigie è inserita in una corona di alloro circolare sostenuta da un putto e sormontata dallo stemma di famiglia.
La composizione poggia su un basamento lapideo su cui sono riportati il suo nome, le sue origini venete, la durata del suo pontificato, le date di elezione e di morte e il tempo in cui la sede papale è rimasta vacante dopo la sua morte.

 

Angelo e Madonna
Maestro dell’angelo dell’Annunciazione e Maestro della Madonna dell’Annunciazione.
Prima metà XVII secolo.
Bassorilievo in marmo di Carrara; cornice in marmo di bardiglio; h cm 42 x 33 (esclusa cornice).
Il tema dell’Annunciazione della Vergine è rappresentato in due distinti bassorilievi marmorei realizzati a mo’ di cammei, ai quali rimanda pure l’impostazione di profilo dei due protagonisti.
Quello che appare più evidente a una prima lettura è la differenza stilistica e qualità delle due effigi. Il profilo della Vergine è appena rilevato dalla superficie e non emerge da essa, il manto che l’avvolge è ricco e morbido, con un gioco nel panneggio che funge da cornice.
Di tutt’altra fattura è l’Angelo, il suo corpo è vigoroso e trasmette forza e grandezza, tantoché la figura sembra fuoriuscire dal medaglione.
Una buona manifattura visibile particolarmente nel volto, che è ben disegnato, e nei tratti chiaroscurali ne movimenta la superficie. La ricchezza della chioma, resa nella precisione ricercata dei riccioli e nella loro ricaduta morbida sulle spalle accentua ulteriormente l’aspetto vagamente sensuale della figura alata, tipico del panorama artistico del XVII secolo.
Da questi elementi si deduce una realizzazione del dittico a due mani, circostanza comune nel tempo.
Ci troviamo di fronte a due rilievi, realizzati nello stesso periodo, prima metà del Seicento, ma da due artisti diversi e in seguito accostati nel rispetto del tema dell’Annunciazione.
Nella difficoltà di individuare una attribuzione precisa, si è optato per l’inserimento di una denominazione convenzionale dei due autori – “Maestro dell’angelo dell’Annunciazione” e “Maestro della Madonna dell’Annunciazione”.

 

Ritratto del Papa Innocenzo X
Scuola di Francesco Albani
Olio su tela ovale, cm 80 x 96
A partire dal 1650 l’iconografia di Innocenzo X Pamphili si uniforma quasi totalmente allo straordinario ritratto di Diego Velazquez.
A partire da quella data fu impossibile pensare all’effige del Pontefice Pamphili senza il filtro del pittore spagnolo.
Va però notato che diversi ritratti del Pontefice furono realizzati prima di tale capolavoro, sia in scolatura che in incisione. Nel ritratto proveniente dalla collezione Chiomenti-Vassalli, in precedenza ritenuto di Gregorio XV, prima della sua elezione e invece ben riconoscibile la fisionomica di Innocenzo X: la fronte esageratamente alta e sporgente, le rughe che la solcano, i sopraccigli alzati, suo segno distintivo. Il ritratto della collezione Chiomenti-Vassalli è una delle prime immagini commissionate dopo l’elezione del Papa.
Il fatto che sia all’interno di un ovale fa pensare che derivi da un’incisione o disegno.

 

Ritratto del Papa Urbano VIII
Guidobaldo Abbatini Città di Castello, ca.1600 — Roma, 1656
Olio su tela, cm 118 x 80,7
Maffeo Barberini (Firenze, 1568 — Roma, 1644), eletto papa nel 1623, successore di Gregorio XV, ha lasciato un’impronta nel ‘600, particolarmente nel campo delle arti. L’incontro che Abbatini ebbe con Bernini lo influenzerà profondamente, come nel caso del presente ritratto di Urbano VIII che rimanda all’iconografia tradizionale delle rappresentazioni del pontefice Barberini, anche la mano benedicente è debitrice dell’idea berniniana “dell’istantaneo“.

 

Ritratto di Papa Clemente VIII
Scuola romana Olio su tavola, cm 66×57
Iscrizioni: in alto a sinistra “CLEMENTS.VIII.”; In alto a destra “PONT.MAX.A.III”.
Ippolito Aldobrandini fu eletto papa nel 1592 con il nome di Clemente VIII.
Questo dipinto lo ritrae nel terzo anno nel suo pontificato con tratti fisiognomici giovanili. Il ritratto deriva da quello inserito nella famosa “serie gioviana” della Galleria degli Uffizi, ma è reso più vivo da alcuni particolari come la bocca socchiusa in atto di parlare e gli occhi illuminati da un tocco di luce sull’iride.

 

Ritratto del Papa Alessandro VII
Guidobaldo Abbatini Città di Castello, ca.1600 – Roma, 1656
Olio su tela, cm 62 x 47
Fabio Chigi (Siena, 1599 — Roma, 1667), eletto nel 1655, succede ad Innocenzo X.
Il ritratto si basa su un’effigie di impronta berniniana, una volta a Palazzo Chigi a Ariccia e oggi in una collezione privata romana, presentata alla mostra Papi in posa (Roma, Palazzo Braschi, 2004 – 2005), in cui Alessandro VII, visto in tre quarti di profilo verso sinistra, è seduto.
Alcuni precisi caratteri di osservazione permettono di ipotizzare di trovarci in presenza di uno studio dal vivo che ha costituito poi l’iconografia ufficiale del pontefice.
Qui viene rappresentato soltanto in busto, senza le mani; tutta l’attenzione è fissata sull’espressione del viso.

 

Crocifisso
Artista di ambito romano. Prima metà del XVIII secolo.
Datazione: prima metà del XVIII secolo.
Legno con parti applicate in bronzo dorato a fuoco; h cm 114x50x16.
Iscrizione, sul cartiglio in alto IN RI.
Il Cristo crocifisso dorato, dalla base lignea riccamente intagliata, presenta debiti formali nei confronti della serie di ventisei Crocifissi, che tanta fortuna ha avuto nel Seicento romano, ideata da Gian Lorenzo Bernini, eseguita con la tecnica della cera persa da Ercole Ferrata e successivamente fuse in bronzo da Paolo Guarnirei, tra l’ottobre del 1658 e il febbraio del 1661.
Le tipologie di figure berniniane del Cristo in croce, nella duplice iconografia di Christus triumphans e Christus patients, conobbero un’immediata e duratura diffusione, tanto da essere riprodotte in numerose repliche e varianti anche nel corso del Settecento.
L’opera devozionale qui presente è, nella sua semplicità, raffinata nella fattura del corpo del Cristo e preziosa nell’intaglio ligneo.
Il morbido modellato del volto, dall’accentuato patetismo, si accompagna a un’attenta resa anatomica, arricchita dall’elegante panneggio che cinge i fianchi del Cristo. La base lignea, decisamente più elaborata rispetto all’originario prototipo berniniano, rimanda, con le sue avvolgenti volute dorate, al tardo Barocco romano, epoca in cui l’esempio formale trasmesso dal grande scultore, architetto e pittore si cristallizza in forme via via sempre più complesse ed esornative.

 
 


Panorama di Roma dal Gianicolo
Giuseppe Vasi Corleone, 1719 – Roma, 1782.
Incisione all’acquaforte e al bulino in 12 tavole, cm. 108 x 270.
È la più bella prospettiva incisa di Roma nel ‘700, stampata nel 1765, centrata su Palazzo Corsini alla Lungara.
È dedicata a Carlo III di Borbone, re di Spagna.
Questi era stato fino al 1759 re delle Due Sicilie e aveva adoperato a Napoli Ferdinando Fuga, architetto fiorentino di Palazzo Corsini.
Il panorama è sommamente preciso e minuzioso.
Vasi fu il maestro del giovane Gianbattista Piranesi. Le sue opere principali sono i dieci volumi di stampe della Magnificenze di Roma antica e moderna (1747-1761) e la Nuova pianta di Roma in prospettiva (1781).
 

Ritratto del papa Clemente IX
Carlo Maratti o Maratta Camerano (Ancona), 1625 – Roma, 1713 Olio su tela, cm. 95 x 77.
Carlo Maratti, pittore di famiglia di origine illirica, nato nella Marca di Ancona, fece carriera a Roma.
Fu, insieme al fratello Bemabeo, allievo di Andrea Sacchi, dall’età di sedici anni, a detta di Giovanni Pietro Bellori, suo biografo e suo amico, fino alla morte del Sacchi nel 1661.
Egli diventa per eccellenza il pittore del barocco romano.
Il Ritratto di Clemente IX di grande qualità mostra il pontefice di tre quarti che tiene con la destra un libro posato su un tavolo.
Maratti dipinse il ritratto di Clemente IX nel convento di Santa Sabina durante il carnevale del 1669.
L’archetipo, descritto dal Bellori, rimasto nella famiglia Rospigliosi, è oggi nei Musei vaticani.
Una replica, proveniente dalla famiglia Pallavicini, si trova all’Ermitage di San Pietroburgo.

 

Ritratto del papa Clemente IX
Giovanni Battista Gaulli, detto Baciccio Genova 1639 – Roma 1709.
Olio su tavola, cm 33 x 29
Si tratta di uno studio dal vero dipinto probabilmente poco dopo l’elezione del Cardinale Giulio Rospigliosi al trono di S. Pietro nel 1667.
Sono questi gli anni in cui il giovane artista genovese consolida la sua reputazione a Roma.
Questo ritratto di Clemente IX è fra i più interessanti per capire il suo metodo di lavoro, perché si tratta di una posa del modello, fatto piuttosto raro in quell’epoca.
Presenta caratteri precisi di definizione e di esattezza che dimostrano un acuto senso di osservazione.
Gaulli riesce a rendere la vivacità dello sguardo, l’espressione del viso come le minime differenze di pelle, ciò permette di collocare questo ritratto anteriormente alle versioni ufficiali conservatesi, di cui la principale è quella della Galleria nazionale d’Arte Antica (Palazzo Barberini) di Roma, proveniente dalla Collezione Rospigliosi nel palazzo romano di questa famiglia e che deriva direttamente dalla presente posa.

 

Ritratto del papa Clemente IX
Giovanni Battista Gaulli, detto Baciccio Genova 1639 – Roma 1709 Olio su tela, cm.95 x 110.
Gaulli, che arriva a Roma nel 1657, vi fece praticamente l’intera carriera, approfittando degli incoraggiamenti di Pietro da Cortona e della protezione di Bernini, il quale fu per lui un maestro e lo introdusse nella corte papale come ritrattista e frescante.
Il Ritratto di Clemente IX segue il ritratto di Gaulli del suo predecessore, Alessandro VII, la cui versione migliore si trova nella collezione Mario Chigi (Castelfusano, Villa Chigi).
Di Giulio Rospigliosi (Pistoia, 1600 – Roma, 1669), eletto nel 1667, conserviamo vari esemplari a mezza figura, benedicente con la destra; le versioni migliori sono quelle delle Galleria nazionale d’Arte antica di Roma (Palazzo Barberini), proveniente dalla collezione Rospigliosi, e di Palazzo Chigi ad Ariccia.
Questo ritratto è probabilmente une versione di bottega, il cui scopo era di far conoscere i tratti di Clemente IX, attraverso doni e scambi, alle corti cattoliche d’Europa.

 

Ritratto di papa Urbano VIII
Anonimo seguace di Pietro da Cortona Olio su tela, cm. 118,5 x 80,7.
Iscrizioni: sul foglio nella mano sinistra A.D. / P. V.
Urbano VIII è assiso sul seggio con un foglietto nella mano sinistra e un oggetto, forse una chiave, nella mano destra, fi volto di Maffeo Barberini, salito al soglio pontificio nel 1623 deriva dal bellissimo ritratto a matita di Ottavio Leoni.
Dal punto di vista pittorico la tela si avvicina ad ambito cortonesco.
La particolare iconografia che vede il pontefice tenere una chiave nella mano sembra essere un’invenzione successiva; con ogni probabilità, in origine la mano era rappresentata in atto di benedire.
La sinistra tiene un foglio bianco sul quale appaiono quattro lettere A.D /P. V., forse allusione al suo quinto anno di pontificato.

 

Ritratto del cardinale Scipione Borghese
Lavinia Fontana Bologna 24 agosto 1552 – Roma 11 agosto 1614 Olio su tela, cm. 153 x 122.
L’attribuzione alla pittrice bolognese, avanzata da Anna Coliva, direttrice della Galleria Borghese nel capitolo Scipione Borghese, in Catalogo della mostra Bernini scultore.
La nascita del Barocco in Casa Borghese (a cura di A. Coliva e S. Schutze, Edizione De Luca, Roma 1998, pp. 276-89, fig. 5), tenutasi alla Galleria Borghese (15 maggio – 20 settembre 1998), è da confermare sulla base dell’analisi stilistica e pittorica del dipinto, corroborata dai riscontri documentati di rapporti di committenza intercorsi tra il cardinale e Lavinia Fontana, durante gli ultimi dieci armi della sua vita trascorsi a Roma.
Si può ricordare che Scipione Borghese, Cardinal nepote di Papa Paolo V Borghese (1605-1621), era definito per la sua munificenza e la sua affabilità, “delizia di Roma” (Ciacconio), e “miracolo del secolo” (Marino).

 

Papa Innocenzo X Pamphilj
Artista di ambito romano della metà del XVII secolo Datazione: 1644.
Rame sbalzato, h cm 72 x 62 – Iscrizione: INNOCENTIUS X PONT MAX ANNO 1644.
L’ovale racchiude il busto ritratto di Giambattista Pamphilj salito al soglio pontificio con il nome di Innocenzo X (1644-1655), dall’incisione si può supporre che venne realizzato lo stesso anno della sua elezione a successore di Pietro.
La figura del pontefice è raffigurata racchiusa entro un pesante piviale riccamente ornato da girali di fiori e fermato da un fermaglio-stemma muto, fissato sul retro dell’ovale con due piccoli bulloni in metallo; con la spalla sinistra leggermente arretrata e con il capo appena ruotato verso l’osservatore, l’artista è riuscito a dare all’effige una traccia di vitalità seppur schematica, che prosegue anche nel volto. L’opera, per avere questa datazione, si discosta da quei caratteri che divennero modello per tutti gli scultori, ed anche per i pittori, dopo il 1632 e che furono dettati da un modello, per così dire, alla moda di tipo specificatamente beminiano.

 
 


Sedici ritratti di Papi da Martino V (1417-1431) a Leone XI (1605)

Olio su tavola, cm 60 x 42
Collezione di ritratti retrospettivi di papi dal ‘400 agli inizi del ‘600, rappresentati in medaglioni ovali.
La serie riprende le effigi di 16 dei 27 papi di questo periodo.
Si basa su delle medaglie, dalle quali derivano i ritratti di profilo, o su alcuni quadri che hanno diffuso l’iconografia dei pontefici.
Le gallerie di uomini famosi sono frequenti ad iniziare dalla seconda metà del ‘400.
Ricordiamo lo Studiolo di Urbino di Federico da Montefeltro (Urbino, Palazzo Ducale e Parigi, Louvre); la collezione Gioviana degli Uffizi a Firenze e quello del castello di Beauregard vicino a Blois.
 
1.Martino V
Olio su tavola, cm. 60 x 42
Ottone Colonna (Roma, 1368 -1431) fu eletto nel 1417. Risolse il grande scisma d’Occidente, riportando la sede unica del papato a Roma ed ottenendo la rinuncia dell’anti-papa Clemente VIII. Fondò l’Università di Lovanio, nel Brabante, una delle più antiche del nord dell’Europa.
Nell’iconografia Gioviana degli Uffizi, nel ritratto di Cristofano dell’Altissimo (1556), i tratti sono identici.
 
2. Eugenio IV
Olio su tavola, cm. 60 x 42
Eugenio Condulmer (Venezia, 1383 – Roma, 1447) fu eletto nel 1441.
Perspicace protettore delle arti, trasferì il concilio di Basilea a Firenze ed operò la riconciliazione tra le chiese d’Occidente e d’Oriente. Il ritratto dell’iconografia Gioviana degli Uffizi offre gli stessi tratti.
 
3. Callisto III
Olio su tavola, cm. 60 x 42.
Alonzo Borgia (Xàtiva, 1378 – Roma, 1458), eletto nel 1455, è lo zio di Alessandro VI.
Combatté i Turchi ed Alfonso d’Aragona, re di Napoli. I tratti corrispondono a quelli del ritratto (Valencia, Museo della Cattedrale), dipinto da Joan de Joanes, che fa parte di una serie iconografica datata alla meta del ‘500.
 
4.Paolo II
Olio su tavola, cm. 60 x 42
Pietro Barbo (Venezia, 1417 – Roma, 1471), nipote di Eugenio IV, fu eletto papa nel 1464.
Protettore delle arti, fece costruire a Roma il Palazzo di Venezia.
Il ritratto dell’iconografia Gioviana degli Uffizi, dove è rappresentato in vesti pontificali, lo mostra con lo stesso profilo e il naso aquilino.
 
5. Sisto IV
Olio su tavola, cm. 60 x 42
Francesco della Rovere (Savona, 1414 – Roma, 1484), eletto nel 1471 e zio di Giulio II.
Il pittore anonimo riprende la posa del papa nell’affresco di Melozzo da Forlì, Sisto IV affida la Biblioteca vaticana al Platina (Città del Vaticano, Musei Vaticani), modificandola leggermente quanto al profilo del naso.
 
6. Innocenzo VIII
Olio su tavola, cm. 60 x 42
Giovanni Battista Cybo (Genova, 1419 – Roma, 1492), eletto papa nel 1484, creatura di papa Sisto IV e diretto predecessore di Alessandro VI, occupa una posizione piuttosto sfortunata nella storia del ‘400.
Protesse gli artisti e fece costruire in Vaticano il Palazzetto di Innocenzo VIII.
La medaglia che lo rappresenta viene generalmente attribuita al Pollaiolo e ispirò anche il ritratto di Cristoforo dell’Altissimo per l’iconografia Gioviana degli Uffizi.
 
7. Leone X
Olio su tavola, cm. 60 x 42
Giovanni dei Medici (Firenze, 1475 — Roma, 1521), eletto papa nel 1513, è uno dei mecenati più famosi dell’Alto Rinascimento romano.
L’effigie si ispira al modello di Raffaello (Firenze, Galleria Palatine, esposto agli Uffizi), in cui è rappresentato fra i cardinale Luigi de’ Rossi e Giulio de’ Medici.
 
8. Adriano VI
Olio su tavola, cm. 60 x 42
Adriaen Fiorisz Boeyens, detto Adriano di Utrecht (Utrecht, 1459 ~ Roma, 1523), eletto nel 1522, fu uno dei precettori di Carlo V, scelto dall’imperatore Massimiliano d’Austria.
La sua elezione nel conclave del 1522 indica la volontà di fronteggiare agli esordi la riforma luterana.
La sua tomba, opera di Baldassare Peruzzi, si trova nel coro di Santa Maria dell’Anima a Roma.
I tratti del ritratto corrispondono a quelli dell’iconografia Gioviana degli Uffizi.
L’iconografia di Adriano VI è essenzialmente dovuta ad artisti dei Paesi Bassi ed è sconosciuta in Italia.
 
9. Clemente VII
Olio su tavola, cm. 60 x 42
Giuliano de’ Medici (Firenze, 1478 – Roma, 1534), eletto nel 1523, ebbe come ritrattista preferito Sebastiano del Piombo.
Il modello qui seguito è di profilo verso destra, con la barba, i cui esemplari sono quelli del J.P. Getty Museum di Los Angeles e del Kunsthistorisches Museum di Vienna.
Negli anni seguenti al Sacco di Roma nel 1527, Clemente VII si lasciò crescere la barba.
 
10. Paolo III
Olio su tavola, cm. 60 X 42
Alessandro Farnese (Roma, 1468-1549), diventato papa nel 1534, fu ritratto più volte da Tiziano.
Il ritratto si basa su una delle effigi più note di Paolo III, conservata nella Galleria nazionale di Capodimonte a Napoli.
La tela di Napoli è generalmente identificata con il ritratto del 1543, citato in una lettera dell’Aretino e che Vasari dice eseguito in Emilia, nell’occasione dell’incontro di Carlo V e Paolo III a Busseto.
 
11. Giulio III
Olio su tavola, cm. 60 x 42
Giovanni Maria Ciocchi del Monte (Roma, 1487-1555), eletto nel 1550, collaboratore e successore di Paolo III, di cui continua l’opera del Concilio di Trento.
Il modello di questo ritratto frontale non si conosce; l’effigie corrisponde alla terracotta policroma (Roma, Museo nazionale di Valle Giulia), nella quale il papa è rappresentato in busto, opera anonima del ‘500.
A San Pietro in Montorio a Roma si trova la cappella della famiglia del Monte che Giulio III fece decorare da Giorgio Vasari.
Si può pensare che questi abbia dipinto il ritratto del papa.
 
12. Pio IV
Olio su tavola, cm. 60 x 42
Giovanni Angelo Medici di Malignano (Milano, 1499 – Roma, 1565), eletto nel 1559, zio di san Carlo Borromeo, riapri il Concilio di Trento e comincio la costruzione di Santa Maria degli Angeli a Roma.
L’effigie si approssima a quella della serie Gioviana degli Uffizi.
Il modello sembra un ritratto di Iacopino dal Conte citato dal Vasari, di cui l’originale è perduto, ma un esemplare molto vicino è conservato ai Musei Vaticani.
 
13. Gregorio XIII
Olio su tavola, cm. 59,5 x 43
Ugo Boncompagni (Bologna, 1502 – 1585), eletto nel 1572, applicò le deliberazioni del Concilio di Trento e riformò il calendario, oggi conosciuto col nome di calendario gregoriano.
Il ritratto dell’iconografia Gioviana degli Uffizi, eseguito da Cristofano dell’Altissimo verso gli anni 1600-1604, lo rappresenta più giovane e di profilo verso destra.
L’iconografia di Gregorio XIII è abbondante; il modello seguito è piuttosto il ritratto dipinto da Scipione Pulzone (Roma, collezione Boncompagni Ludovici), da cui derivano i ritraiti di Pietro Facchetti e dì Ludovico Carracci.
 
14. Gregorio XIV
Olio su tavola, cm. 60 x 42
Nicola Sfiondati (Massa Lombarda, 1535 – Roma, 1591), eletto nel 1590, il cui breve pontificato offrì segnali dall’adesione alla Santa Lega Cattolica voluta da Filippo II di Spagna contro la Francia di Enrico IV. L’iconografia del pontefice é rarissima; il ritratto s’ispira ad un Kariau di Gregorio Alt (Roma, collezione privata), vicino allo stile di Iacopino del Conte.
 
15. Clemente VIII
Olio su tavola, cm. 50,5 a 43.
Ippolito Aldobrandini (Fano, 1536 – Roma 1605) eletto papa nel 1592 di cui il lungo pontificato fu segnato dal ritorno dì Enrico IV al cattolicesimo in Francia e dall’Editto di Nantes come anche dall’annessione di Ferrara allo Stato Pontificio, dalla Tragedia dei Cenci e da quella di Giordano Bruno.
Conosciuto per Palazzo Aldobrandini dì Roma a la Villa di Frascati e per l’arrivo delle collezioni estensi da Ferrara a Roma, desta sorpresa che abbia affidato il suo ritratto ad Antonio Scalvati, pittore bolognese, da cui questa immagine è tratta.
 
16. Leone XI
Olio su tavola, cm. 59,5 a 45.
Leone XI, nato Alessandro di Ottaviano de’ Medici di Ottajano (Firenze, 2 giugno 1535 – Roma, 27 aprile 1605), è stato il 232º papa della Chiesa cattolica nonché sovrano dello Stato Pontificio dal 1 aprile 1605 alla morte.
Il suo pontificato, durato appena ventisei giorni, è il nono pontificato più breve della storia della Chiesa cattolica.
La sua iconografia è pertanto rarissima; deriva dal ritratto fatto da Antonio Scalvati in Sant’Agnese fuori di Roma.
 

Papa Clemente VIII Aldobrandini
Bastiano (o Sebastiano) Torrigiani (Bologna, prima metà del XVI secolo – Roma 1596).
Datazione: post 1592 – ante 1596.
Bronzo, base in marmo di diaspro di Sicilia; h cm 30×23; base h cm 15×12
L’effigie di Clemente VIII Aldobrandini (1592-1605) presenta considerevoli somiglianze con ritratti papali bronzei attribuibili a Bastiano (o Sebastiano) Torrigiani, scultore attivo a Roma a partire dagli anni Settanta del XVI secolo.
L’artista fu responsabile dei lavori in bronzo eseguiti presso la corte papale di Gregorio XIII (1572-1585) e Sisto V (1585-1590). Giunto a Roma entra a far parte della bottega di Guglielmo della Porta, imponendosi rapidamente come raffinato scultore e abilissimo fonditore; lavora, infatti, alla fusione delle sculture raffiguranti San Pietro e San Paolo (1588 ca.) poste in cima, rispettivamente, alla Colonna Traiana e alla Colonna Antonina.
Collabora con lo scultore fiorentino Taddeo Landini (1550 – 1596), autore delle figure bronzee per l’elegante Fontana dette Tartarughe a Roma.
La presente opera ha lo stesso trattamento della materia di altri due busti del Torrigiani e ancora raffiguranti Sisto V: l’uno conservato a Berlino, Bode Museum, l’altro nelle collezioni del Victoria and Albert Museum di Londra.
Il presente ritratto di Clemente Vili può forse essere datato a subito dopo l’ascesa al soglio pontificio di papa Aldobrandini (1592) e comunque prima del 1596, anno della morte del Torrigiani.

 

Papa Innocenzo XI Odescalchi
Lorenzo Ottoni Roma, 1648 – 1736 Datazione: 1680 ca.
Terracotta, h cm 47×40.
Il busto presenta notevoli affinità formali e stilistiche con un’altra terracotta, sempre raffigurante papa Innocenzo XI Odescalchi (1676-1689), comparsa sul mercato antiquariale nel 1920 con l’attribuzione a Domenico Guidi. In seguito riferita invece (Sotheby’s 2007) all’esecuzione di Lorenzo Ottoni, l’opera possiede, come la presente terracotta, caratteristiche di marcata espressività: medesimi occhi grandi e pesantemente segnati, stessa bocca serrata e incisiva, profonde pieghe lungo le guance e il naso.
Tanta è la somiglianza tra le due sculture che la terracotta qui in esame sembrerebbe essere una prima versione, meno accuratamente rifinita nei dettagli, della seconda.
La produzione ritrattistica di Ottoni, scultore romano formatosi presso Antonio Giorgetti ed Ercole Ferrata, rivela una vigorosa matrice berniniana, non temperata, come nelle opere di Gian Lorenzo Bernini, da ineffabile nobiltà e nitore, ma contraddistinta da forte grafismo e da una peculiare durezza dei lineamenti; si vedano in questo senso il ritratto di papa Alessandro VIII Ottoboni (1689-1691) attribuito a Ottoni e conservato in due versioni, una presso il Liebieghaus di Francoforte, l’altra presso il Detroit Institute of Arts Ancora, opere di proprietà del Museo di Roma-Palazzo Braschi e riferite all’artista romano, manifestano una simile impostazione compositiva.
Si vedano il Busto del cardinale Antonio Barberini juniore (1680 ca.), dall’atteggiamento solenne e insieme colloquiale, e il Busto del cardinale Francesco Barberini seniore (1680 ca.), dallo sguardo vivacemente animato.

 

Papa Innocenzo XI Odescalchi
Artista dell’ambito di Paolo Morelli, seconda metà del XVII secolo.
Datazione: ultimo decennio del XVII secolo.
Bassorilievo in marmo di Carrara; base a pianta quadrata in marmo venato; 0 cm 27,5 ; basamento h cm 12 Iscrizione: INNOCENTIUS XI PONT MAX.
Il volto di Benedetto Odescalchi, nato a Como nel 1611 e asceso al trono pontificio il 21 settembre 1676 come Innocenzo XI.
I lineamenti del pontefice, dal mento aguzzo e dalla sottile bocca serrata, ne restituiscono l’espressione ferma e, nonostante l’età non giovanissima, risolutamente volitiva.
L’austero Innocenzo XI è qui raffigurato di profilo, in una foggia propria dell’arte numismatica.
Le effigi celebrative eternate da medaglie e monete emesse dalla Zecca Pontificia costituivano del resto le immagini ufficiali dei pontefici romani, subito riprese e replicate nella diffusissima produzione di ritratti papali destinati al culto e alle collezioni dei privati.
La tipologia dell’immagine, come pure lo stile e la tecnica, semplificata ma efficace nella resa della mozzetta, della stola e della testa coperta dal camauro, indicano una fattura collocabile all’ultimo decennio del XVII secolo, in un’epoca dunque posteriore alla morte del papa.

 

Venere e amorini
Pauwel Franck, detto Paolo Fiammingo Anversa, 1540 – Venezia, 1596.
Olio su tavola, cm. 31 x 106,5.
La tela, dipinta tra il 1575 e il 1580, appartiene all’arte del paesaggio italo – fiammingo della fine del Cinquecento di ambiente veneziano.
Pauwel Franck, divenuto maestro della gilde dei pittori di Anversa nel 1560, si recò poi a Venezia, dove fu allievo di Jacopo Tintoretto; si può ipotizzare la collaborazione di Parrasio Micheli (prima del 1516 – 1578) per le figure Carlo Ridolfi (1648) ha lasciato una biografia di Paolo Franceschi pittore e d’altri fiamminghi discepoli del Tintoretti, che lo descrive come pittore di paesaggi e di scene di figure: “Fattosi Paolo prattico della Maniere Venetiana, si ritirò per se, facendo tuttavia numero infinito di paesi, ne quali fu molto valoroso“. Venere ed amorini può accostarsi al Ciclo degli Amori, tele dipinte per Hans Fugger, banchiere di Augusta, nel castello di Kirchheim in Svevia.

 

Il riposo di Diana
Giacomo del Po Roma, 1652 – Napoli, 1726.
Disegno a matita nera su carta bianca, cm. 24 x 24.
Giacomo del Po é uno dei pittori che dominarono la scena napoletana dopo la morte di Luca Giordano.
L’artista é il figlio di Pietro del Po (1610-1692), lui pure pittore e forse allievo di Nicolas Poussin.
Giacomo s’inserisce nel filone del barocco romano, nell’ambito di Andrea Sacchi e di Carlo Maratti; accolto nell’Accademia di San Luca a Roma nel 1674, si trasferisce a Napoli nel 1684 e vi si afferma con uno stile decorativo dai grandi effetti e da definizioni raffinate del chiaroscuro.

 

Ritratto di gentiluomo
Pierleone Ghezzi
Roma, 1674 – 1755 .
Disegno a penna su carta bianca, acquarellato a colori, cm. 37,5 x 29,5.
Caricatura che mostra il gentiluomo visto di profilo verso sinistra e in piedi.
Si stacca da un fondo di paesaggio sommariamente schizzato.
Particolare insolito, il disegno è parzialmente rilevato d’acquarello nel vestito, suolo e paesaggio.
Figlio del pittore Giuseppe Ghezzi, Pierleone Ghezzi, pittore e disegnatore, è innanzitutto l’arbiter elegantiarum della società romana della prima metà del Settecento; intrinseco delle grandi famiglie romane, Albani, Altieri, Falconieri, è l’uomo di mondo per definizione.
Circa 3000 caricature disegnate rappresentano tutti gli attori del Mondo nuovo, titolo della collezione in otto volumi del fondo Ottoboni della Biblioteca Vaticana.
Alle collezioni note dell’Istituto per la Grafica di Roma, già Fondo Corsini, del British Museum di Londra e del Dipartimento delle Arti grafiche del Louvre, si aggiungono fondi meno noti come quelli della Biblioteca Passionei di Fossombrone e della Biblioteca nazionale di La Valetta.
Alcuni altri volumi sono stati smembrati e dispersi.

 

Ritratto di un macellaio
Pierleone Ghezzi.
Roma, 1674 – 1755
Disegno a penna su cartabianca, mm. 260 x 180.
Pierleone Ghezzi, “il famoso Cavaliere delle Caricature“, secondo la didascalia dell’incisione di Cari Marcus Tuscer, pubblicata a Londra nel 1743, si fece una reputazione europea con i suoi disegni.
Una parte rappresenta mestieri, come il macellaio, vestito da lavoro con coltello e si inserisce in una tradizione di osservazione della vita popolare.
Non si conosce la provenienza del disegno.

 

Monsieur Bauniere, courrierdu cabinet
Pierleone Ghezzi.
Roma, 1674 – 1755.
Disegno a penna su carta bianca, mm. 305 x 210.
Il personaggio é visto di profilo verso sinistra; porta un vestito elegante con un tricorno sotto il braccio.
E’ identificato da un’iscrizione al verso.
Faceva parte di una delegazione mandata dalla corte francese al cardinale Melchior de Polignac, ambasciatore di Francia a Roma dal 1724 al 1730.
Tornò in Francia alla fine di settembre 1728; il disegno faceva parte della collezione, rilegata in due volumi, che apparteneva a Lord Braybrooke, la quale venne venduta all’asta da Sotheby’s a Londra il 10 dicembre 1979, n°137.
Un altro ritratto suo si trova nel ms.Ottob.Lat.3116, fol. 110, della Biblioteca Vaticana.

 

Mastro Carlo Banderaro in Frascati
Pierleone Ghezzi.
Roma, 1674 – 1755.
Disegno a penna su carta bianca, mm. 316 x 230. Montato con doppia riquadratura a penna e contrassegnato in alto a destra con numero 45.
Sotto il disegno si legge la seguente scritta autografa: “Mastro Carlo Banderaro che ha fatto tutti i letti e le sedie / alla Rufìna di Casa Falconieri in Frascati, fatto da me Cav.re Ghezzi il dì / 10 luglio 1750, dove ci sono stati affata cavalieri Sr. Duca Caffarelli / con li due suoi figli, Mons. Perretti, Mons. Pisone, Sr. Prencipe di Palestrina, / Mons. Petroni, il conte Olivieri et altri cavalieri“.
La caricatura si riferisce a uno dei domestici di casa Falconieri a Frascati, soggetto incontrato spesso da Ghezzi durante i suoi soggiorni estivi alla Rufìna a Villa Falconieri.
Il disegno ha fatto parte di uno dei tre volumi di caricature del Ghezzi, appartenuti a Carlo III, re delle Due Sicilie, poi di Spagna.
La data 1750 è la più recente per la costituzione di questi album; essi fecero parte del bottino di guerra del duca di Wellington dopo la battaglia di Vittoria nel giugno 1813 sull’esercito di Giuseppe Bonaparte e furono venduti all’asta a Londra nel 1971.

 

Ritratto di matematico
Pierleone Ghezzi.
Roma, 1674 – 1755.
Disegno a penna su carta bianca, mm. 350 x 260.
Scritte non autografe: in alto, due parole in caratteri ebraici e “Anno aetatissuae LXX“; in basso a sinistra “delineabatcele- berrimus Petrus Leo Ghezzius die 16 junij 1740“.
Come la maggior parte dei personaggi in piedi caricaturati da Ghezzi, è visto verso sinistra.
La rappresentazione è precisa; la professione è suggerita da un disegno geometrico sul suolo a sinistra.

 

La sosta degli zingari: i preparativi del festino
Jacques Callot Nancy, 1592 – 1635.
Acquaforte con ritocchi al bulino, mm. 174 x 237.
Firmato in basso a sinistra: “Callot de.
In alto a sinistra un distico: “Auboutducomteilstreuvent pour destin / Qu’ilssontvenus d’Aegipte à ce festin” (“Alla fine della favola trovano per destino / che sono venuti d’Egitto a questo festino”).
Questa tavola della serie Gli zingari, incisa da Callot in Lorena, dopo il suo ritorno dall’Italia nel 1621, è una delle più note dell’incisore lorenese.
Félibien ricorda che il giovane avrebbe fatto tre fughe per recarsi in Italia; la prima fra gli undici e i dodici anni, “in cui si aggregò a una compagnia di Zingari che era diretta in Italia … arrivò con loro fino a Firenze“.

 

La festa sotto l’albero
Adriaen van Ostade Haarlem, 1610 – 1685 Acquaforte, mm. 123 x 226.
Esemplare di grande freschezza e di grande qualità.
Esemplare di 2° stato di 4 (il primo esiste con un unicum al British Museum di Londra).
La stampa si basa su un disegno preparatorio in controparte, dello stesso formato, conservato all’lnstitut néerlandais di Parigi (già collezione Frits Lugt, FondationCustordia, n°8233).

 

Due soggetti di putti
Stefano Della Bella Firenze, 1610 – 1664 Acqueforti, mm. 220 x 222 ciascuna.
Firmate in basso “Steph. dela Bella Inven. et Sculpsit“.
Il primo rappresenta due bambini che giocano con una con una capra; l’altro la famiglia del satiro in cammino.
I soggetti sono posti in composizioni circolari e sono fra le più classiche opere di Stefano Della Bella eseguite a Parigi fra il 1640 e il 1648.
Si nota l’influsso di temi di Francois Duquesnoy, che nella cerchia di Nicolas Poussin a Roma aveva reso popolari i soggetti dei girotondi infantili con animali.

 

Memento Mori
Cerchia di Jan Sanders van Hemessen,Hemiksen, ca. 1500 – Haarlem, ca. 1565.
Olio su tavola, cm. 77 x 63,5.
Il dipinto del primo manierismo fiammingo propone un contenuto morale angoscioso.
Una giovane donna rossiccia interrompe un attimo, spaventatissima, di suonare il liuto per un ricco e vecchio signore, vestito all’orientale; è una cortigiana con un vestito sontuosamente drappeggiato che mostra i seni procaci attraverso un velo quasi trasparente.
Il vecchio regge un teschio vicino al viso della bella e con l’altra mano le presenta uno specchio rotondo nel quale si mescolano i tratti della giovane con quelli del teschio.
Questa allegoria della Vanitas assume uno speciale significato in una società in cui stanno penetrando le idee della Riforma protestante.
Si conoscono alcune interpretazioni anonime fiamminghe, databili come questa verso il 1530-1540.
La versione della Collezione Chiomenti, una delle più ricche di simboli, é la più erotica.

 

Ritratto retrospettivo di Ludovico il Moro
Cristofano dell’Altissimo Conosciuto dal 1552 – Firenze, 1605.
Olio su tavola, cm. 59 x 44,6 cm.
Ludovico il Moro (1452-1508), figlio di Francesco Sforza, diventa duca di Milano alla morte del nipote Gian Galeazzo nel 1494; uomo del Rinascimento, famoso mecenate delle arti, fu spossessato del suo stato dal re di Francia, Luigi XII, fatto prigioniero e morì in esilio.
Un’altra interpretazione del ritratto di Ludovico il Moro, resa da Cristofano dell’Altissimo, si trova nella collezione Gioviana degli Uffizi, n°415.

 
 


Santa Caterina d’Alessandria; san Giovanni battista

Giovanni Baronzio Anni Dieci del XIV secolo – 1365/66.
Maestranze artistiche di area marchigiana Metà XIV secolo anni Trenta-Quaranta XIV sec.
Tempera su tavola (dittico), cm 106 x 96 cad.
L’attribuzione del Dittico, che proviene da Palazzo Davanzati a Firenze, è dovuta a F. Hermanin, V. Mameli, D. Bodart.
I due santi, visti in piedi, staccandosi da uno sfondo scuro, sono da individuare come particolari di un polittico, portelle laterali, individuabile oltre che nell’opera del Baronzio, in maestranze dell’area geografica di riferimento della sua attività artistica: fra Rimini e Marche (Montefeltro e Marca Trabarìa).
In questo modo si andrebbe così anche a definire la problematica dell’arcaismo delle due figure, proprio con l’ipotizzabile e plausibile intervento di maestranze marchigiane legate allo stile riminese della prima metà del Trecento, dal Baronzio al cosiddetto Maestro di Verrucchio.
 


Raccolta di Medaglie
 

Ritratti di Papi
Maestro dei bassorilievi dei Papi e aiuti
Papa Urbano IV
Iscrizione: URBANO IV
Papa Giovanni IX
Iscrizione: GIOANI NONO
Papa san Pelagio
Iscrizione: S PELAGIO
Papa Innocenzo IV
Iscrizione: INNOCENZO IV
Papa san Benedetto II
Iscrizione. S BENEDETTO SECONDO
Papa Severino
Iscrizione. SEVERINO
Datazione: fine XVII secolo
Bassorilievo in marmo; cornice in legno dorato; diametro cm 7 (esclusa cornice).
I sei medaglioni costituiscono un’organica collezione di effigi papali caratterizzate dall’omogeneità di tecnica e materiale – bassorilievo in marmo – dalle identiche dimensioni e dalle medesime cornici in legno dorato.
Fanno eccezione la cornice del medaglione con Urbano IV, caratterizzata da racemi di foglie nella parte centrale, e la cornice che inquadra Innocenzo IV, formata, sempre nella parte centrale, da dentellature mistilinee anziché a superficie liscia come le altre.
I sei pontefici, probabilmente parte di un’originaria raccolta più vasta, rappresentati in ritratti ideali oppure secondo le tradizionali fisionomie che le fonti storiche, nel corso dai secoli hanno loro assegnato, tracciano un percorso per immagini della storia del Papato, dal VI secolo sino al Medioevo: san Pelagio (556-561); Severino (640); San Benedetto II (684-685); Giovanni IX (898 900). Innocenzo IV (1243 – 1254); Urbano IV (1261-1264). Sebbene sia ipotizzabile la provenienza da un’unica bottega artistica dalla fattura costruttiva di livello, con una uniformità ed equilibrio di forme, espressioni ad attitudini, si potrebbe pensare a una realizzazione delle opere da parte di una figura artistica inserita nella struttura imprenditoriale della scultura romana della fine del XVII secolo.
Nell’impossibilità di un’attribuzione diretta, vista anche l’ampia produttività scultorea del periodo, si può identificare l’artista Maestro dei bassorilievi dei Papi.
 

Papa Alessandro VIII Ottoboni
Artista di area romana vicino a Lorenzo OttoniFine XVII secolo-inizio XVIII secolo
Datazione: inizio XVIII secolo.
Bronzo cesellato e dorato a fuoco su lastrina di marmo bianco. Cornice modanata con attaccaglia a fiocco; h cm 13 x 9,5 (esclusa cornice).
Il profilo in bronzo, applicato su una lastrina di marmo bianco e raffigurante papa Alessandro VIII Ottoboni (1689-1691), costituisce un perfetto pendant del profilo in bronzo, riproducente le fattezze del cardinale Pietro Ottoboni juniore, pronipote di Alessandro Vili.
Il piccolo ritratto bronzeo, nella consueta posa di profilo desunta dalla produzione numismatica, riassume le fattezze del pontefice con elegante diligenza, e può essere datato all’inizio del XVIII secolo.
La perfetta simmetria e complementarietà dell’opera con il profilo del porporato Ottoboni, creato cardinale dallo stesso Alessandro VIII, può far supporre che il committente fosse legato al papa da un vincolo di parentela oppure da un legame di gratitudine.
Sovente, difatti, i ritratti papali, anche postumi come nel presente caso, erano esposti nelle abitazioni private come forma di riconoscenza o di deferente fedeltà nei riguardi del pontefice romano.

 

Cardinale Pietro Ottoboni
Artista di area romana vicino a Lorenzo Ottoni Fine XVII secolo-inizio XVIII secolo.
Datazione: inizio XVIII secolo.
Bronzo cesellato e dorato a fuoco su lastrina in alabastro. Cornice modanata con attaccaglia a fiocco; h cm 13 x 9,5 (esclusa cornice).
Il profilo in bronzo, applicato su una lastrina in alabastro, è il perfetto pendant del profilo bronzeo, applicato su lastrina di marmo, raffigurante Alessandro VIII, prozio del cardinale qui effigiato.
Il piccolo ritratto è anch’esso databile all’inizio del XVIII secolo.
Nato a Venezia il 2 luglio 1667, Pietro Ottoboni juniore è nominato cardinale il 7 novembre 1689, all’indomani della salita al soglio pontificio, con il nome di Alessandro VIII, di Pietro Ottoboni seniore.
La testa ricciuta e il nobile profilo del porporato, resi secondo gli ariosi stilemi di fine Seicento, sono fedeli alle eleganti fattezze dell’Ottoboni cosi come furono riprodotte, ad esempio, in una nota incisione di Robert Van Audenaerd su invenzione di Giovan Battista Gaulli.

 

Pappagallo, farfalla e tulipano
Manifattura artistica fiorentina Seconda metà del XVIII secolo-prima metà del XIX secolo.
Commesso fiorentino in pietre dure, cm 26 x 22,5, inizio XIX secolo.
La definizione “Commesso fiorentino” – dal latino commettere, “congiungere” – specifica una tecnica decorativa di lavorazione a mosaico del marmo e pietre dure che si rifà all’opus sedile di epoca romana, funzionale alla decorazione di strutture murarie e/o pavimentali.
Anche nel Commesso fiorentino, infatti, si accostano pezzi, frammenti e intagli di materiali lapidei colorati, ma insieme a pietre locali e pietre preziose, in modo da formare composizioni e disegni come se fossero quadri. L’utilizzo del Commesso fiorentino avviene in particolare nella seconda metà inoltrata del 1500, a Firenze, per mezzo dell’incentivo dei de’ Medici.
Con il tramonto della dinastia medicea prima e lorenese poi cessò anche la richiesta di produzione di arredi in Commesso di pietre dure che, solo intorno all’inizio dell’Ottocento, periodo in cui andranno inseriti anche i due presenti Commessi, avrà una propria nuova diffusione, soprattutto in Nord America, con però una tipologia estetica decisamente più ornamentale e monotona sia dal punto di vista estetico che per quanto riguarda l’invenzione creativa.

 

Tortora e ramo di albero di frutta
Commesso fiorentino in pietre dure, cm 26 x 22,5, inizio XIX secolo.

 


Opere in bronzo sbalzato bulinato e inciso

Galeazzo Mondella detto “Il moderno“, (1467-1528/29).
Adorazione dei magi
Datazione: fine XV-inizio XVI secolo
Bronzo sbalzato bulinato e inciso; cm 9,5 x 6,2.

Adorazione dei pastori
Datazione: fine XV-inizio XVI secolo
Bronzo sbalzato bulinato e inciso; cm 7,5 x 11.

Ecce homo
Datazione: inizio XVI secolo.
Bronzo sbalzato bulinato e inciso; cm 12,5 x 8,5.
Le tre presenti placchette, d’incontestabile attribuzione a “Il moderno“, fanno pensare, soprattutto ad un loro utilizzo cultuale personale, appunto privato, confermato anche dall’esiguità delle loro dimensioni.
A tale proposito va sottolineato che le tre opere dorate ripropongono, dal punto di vista iconografico, proprio quelle tematiche evangeliche – Adorazione dei Magi o dei Pastori, Deposizione, Resurrezione, ecc. – selezionate da “Il moderno” come rappresentazioni standard utilizzate dalla committenza privata e non esclusivamente di ceto nobiliare.
Il moderno” è, fra Quattro e Cinquecento, ormai considerato come uno dei più fertili creatori di placchette, tanto da essere anche citato nelle Vite di Giorgio Vasari, e quindi fra i più grandi artisti di quei tempi.
La critica è oggi d’accordo nell’identificare “Il moderno” con l’orafo Galeazzo Mondella, nato a Verona nel 1467 e morto probabilmente nella stessa città – dove fa testamento il 5 maggio 1528 – nel 1528 o nel ’29. Figlio d’arte, l’artista ha avuto senza ombra di dubbio una intensa e fortunata vita artistica che lo ha portato a Ferrara, a Roma, a Mantova e, forse, anche ad Amboise alla corte del re di Francia.
Le tre placchette, l’Adorazione dei Magi e Adorazione dei pastori, in particolare, risultano con maggiori punti in comune fra di loro rispetto all’Ecce Homo, il quale sembra, anche per quanto riguarda il tornito dei corpi, leggermente meno tardo – inizio XVI secolo – rispetto alle altre due.
Nelle due Adorazioni, infatti, si sente forte l’impronta donatelliana, nel gioco linearistico delle sacre figure, e quella mantegnesca, soprattutto per ciò che concerne la prospettiva architettonica, tale da caratterizzare la datazione di queste due in un momento leggermente precedente – fine XV-inizio XVI secolo – rispetto all’Ecce Homo. In questo si evidenzia invece, in maniera pregnante, un maggiore assoggettamento alla volumetria scultorea, fra Quattro e Cinquecento quindi, di più intensa pertinenza lombarda.
Pensiamo in particolare all’ultimo periodo di Giovanni Antonio Piatti e ad Antonio Mantegazza, soprattutto per quanto riguarda l’esuberanza decorativa.
 

Adorazione dei pastori
Artista “MD”” dell’ambito romano di Franqois Duquesnoy.
Datazione: 1637
Lamina di rame fuso, sbalzato, cesellato e inciso; cm 36×29.
Iscrizione: in basso a sinistra sono incise una “D” e la data “1637” della quale il numero “1” risulta poco leggibile
Placchette e lastre di rame incise, con l’aggiunta della cornice a sbalzo, come nel presente caso, o nella variante montata a pace, entrano prepotentemente, dalla seconda metà del Cinquecento, nelle più grandi collezioni d’arte italiane ed europee.
I due rami in questione, a prima vista, potrebbero essere interpretabili come la riproposizione di una tarda reminiscenza di simili rappresentazioni epifaniche del Cinquecento. Seppure si presentano, nella ripetibilità del genere, con una qualità tutt’altro che trascurabile e soprattutto con spunti stilistici e formali dai quali si deduce, per quanto riguarda la datazione, una decisa fuga in avanti rispetto alla diffusione del genere. D’altronde, se si fa fede alla data incisa nella prima lastra – 1637 – e a quella che potrebbe essere simile ma oggi non più del tutto leggibile della seconda – 16(…) – bene si comprende anche la tipologia e la stilistica, per così dire, più avanzata rispetto a quelle simili del XVI secolo.
Nel sottolineare quindi che le due lastre di rame traggono ispirazione da un ambiente culturale preciso, quello appunto del classicismo romano della prima metà del XVII secolo, fondamentale diviene il parallelismo stilistico con le opere di Francois Duquesnoy (1597-1643).
Lo scultore fiammingo nel 1618 si trasferisce a Roma presso Carlo Lorenese; proprio in questo ambito andrebbero inserite le due Adorazioni, per certi versi derivanti o riproponenti proprio originali del Duquesnoy.
Si veda il raffronto fra il Gesù Bambino e il fanciullo, in basso a destra dell’Adorazione dei pastori, e i due disegni riproducenti bambini che giocano con un cane, ambedue databili al 1627 ca., e attualmente in una collezione privata parigina.
Si veda anche il disegno con la testa di putto di Duquesnoy ora in collezione privata a Monaco, stilisticamente e morfologicamente da riferire al giovane servitore inserito, in basso a destra, fra i Magi della relativa Adorazione.
Altro riscontro è possibile con i cherubini posti in alto nell’Adorazione dei pastori e i putti riprodotti a destra nella lastra in marmo esposta alla Galleria Spada di Roma.
E ancora: si veda la rilettura delle classiche volumetrie post-michelangiolesche dei personaggi inseriti a sinistra delle due lastre e altre sculture dal gusto classicheggiante e michelangiolesco, un classico del presente, di Duquesnoy, come ad esempio, una fra tutte, l’Apollo a Cupido ilei Liechtenstein Museum di Vienna.
Difficile però individuare una personalità precisa che ancora si nasconde dietro quella “D” posta in basso a sinistra delle due lastre che denota comunque la presenza a Roma, nella prima metà del Seicento, di un artista specializzato nella realizzazione di rami di grande diffusione, così come bene dimostrato dalla scelta dei soggetti rappresentati, che per stile e iconografia aveva già acquisito le novità dell’ambiente frequentato.

 

Adorazione dei Magi
Artista dell’ambito romano di Franqois Duquesnoy.
Datazione: prima metà XVII secolo.
Lamina di rame fuso, sbalzato, cesellato e inciso; cm 36×28.
Iscrizione: in basso a sinistra sono incise una “D“, i numeri “1” e “V” seguiti da un terzo numero non leggibile.

 

Scene della vita popolare a Roma
Paolo Monaldi Roma, 1710-1779.
Due dipinti ad olio su tavola, cm. 36 x 46 ciascuno.
Nonostante non ci siano documenti a comprovarlo, spesso la critica ha definito Paolo Monaldi allievo di Andrea Locatelli ravvisando una vicinanza artistica di temi e soluzioni.
I dipinti in esame, realizzati su tavola e inseriti in una cornice mistilinea decorata nei due lati corti con inserti di specchi, erano inseriti come elemento decorativo in un mobile, probabilmente ai fianchi di un armadio, o come decorazione di contro sportelli di una finestra. I temi trattati rientrano nell’ampio genere delle bambocciate che tra XVII e XVIII secolo ebbe grande espansione non solo a Roma.
L’utilizzo di “temi” minori per la decorazione di interni chiarisce che il tema delle attività quotidiane delle classi più umili fosse già ampiamente gradito da parte di una committenza facoltosa.
Si tratta di scene di vita quotidiana, scenette di vita agreste caratterizzate da attività ludiche come il gioco, la musica e il ballo, desunte dalle iconografie dei Bamboccianti, ma che non induce mai al pittoresco.
Le figure tozze dei paesani rappresentati e i paesaggi dipinti, caratterizzano in maniera inequivocabile le opere di Monaldi.

 

Ritratto di San Pio V Roma
Anonimo, ca. 1675
Olio su tela ovale, cm. 69,5 x 57.
Michele Ghislieri (Bosco Marengo, 1504 – Roma, 1577), frate domenicano eletto papa nel 1566, fu beatificato nel 1672.
Il ritratto si basa sui ritratti contemporanei del Papa, quale quello di Bartolomeo Passarotti, di cui la collezione Chiomenti presenta una versione originale, o ancora quello di Giulio Clovio (Milano, collezione Koelliker).
Paolo Alessandro Maffei, autore di una biografia del Papa, dedica un capitolo a quei miracoli “tratti dai processi della sua beatificazione e da altri monumenti” e così riporta: “Era solito San Pio di fare orazione avanti l’immagine di un crocefisso di rilievo. Avvenne, che una sera in volergli secondo il suo solito costume baciare i piedi, gli ritirò addietro la Santa figura più di una volta. Rimase sorpreso il pontefice dal mirabile avvenimento e dubitando ragionevolmente che il suo Signore con sì gran miracolo l’avesse voluto salvare dalle insidie di quale persona malvagia, ordinò che si strofinassero i santi piedi di una midolla calda di pane, la quale data a mangiare ad un cane, tanto era violento il veleno, che nello stesso tempo l’uccise“.
Questo è il momento rappresentato dalla tela Chiomenti-Vassalli.
Il pontefice è sorpreso dal movimento del crocefisso e il suo sbalordimento viene sottolineato dalla mano sinistra alzata e aperta, mirabile l’attenzione del pittore sulla figura del Cristo e sulla decorazione della stola.
Il gesto di Papa Pio V e il movimento delle gambe del Cristo sottolineano una beatitudine e una santità ufficialmente proclamata.

 
 
 

SECONDA SALA

È tutta dedicata alle opere provenienti dal territorio di Calvi: spiccano, la grande pala raffigurante la Pentecoste, proveniente dalla chiesa di San Francesco e attribuita a Camillo Angelucci da Mevale, pittore attivo fra il 1540 ed il 1584, l’Immacolata concezione di Agostino Masucci, proveniente dalla cappella del cimitero, e il Martirio di Sant’Andrea attribuito alla cerchia di Gerolamo Troppa, originariamente collocato nell’omonima cappella della Chiesa di Santa Maria Assunta.
Degno di nota è anche il Canterano del XVI secolo, appartenente all’originale mobilio del monastero.
 

San Pancrazio
Pittore del XVII secolo Datazione: 1606.
Raffigura il patrono a cavallo con in mano uno stendardo rosso.
Secondo la tradizione, ai tempi della contesa tra calvesi e poggiani, un gruppo di questi ultimi, proprio nel giorno della festa di san Pancrazio, si impossessò dello stendardo posto fuori della chiesa intitolata al santo. Nel tumulto che ne seguì una donna, Maria Ceccobelli, riuscì a riprendere lo stendardo per riportarlo, privato dell’asta e piegato in grembo, dentro le mura cittadine.
Lungo il tragitto, fermata dalle guardie poggiane, disse che recava delle rose e, all’atto di mostrare il contenuto della veste, lo stendardo si trasformò miracolosamente in fiori.
Da quel momento gli stendardi di san Pancrazio sono divenuti quattro, uno per ogni parrocchia, ma quello rosso, che ogni anno durante la festa viene portato in processione sulla montagna, simboleggia ancora il possesso calvese del monte San Pancrazio.

 

Madonna orante
Giovan Battista Salvi detto il Sassoferrato.
Proviene dalla locale chiesa di S. Francesco; è una delle innumerevoli copie della Madonna dipinta dal Salvi e testimonia la grande fortuna del modello semplice e di immediata devozione dovuto al pittore marchigiano seguace di Guido Reni e del Domenichino.

 

Crocifisso
Opera di un anonimo scultore del XVI secolo, proviene dalla locale chiesa di Santa Maria Assunta.
Presenta caratteri fortemente realistici soprattutto nel marcato espressionismo del volto.

 

Madonna col bambino tra i santi Sebastiano e Rocco
Opera di Calisto Calisti.
Proviene dalla locale chiesa di San Francesco.
La presenza dei santi Sebastiano e Rocco, tradizionalmente invocati contro la peste, fa pensare che sia stato realizzato in occasione di una pestilenza che colpì il paese di Calvi, pregevolmente rappresentato sullo sfondo.

 

Martirio di Sant’Andrea
Cerchia di Gerolamo Troppa.
Olio su tela, parzialmente ridipinto, cm 288 x 205.
Collocazione originaria: si trovava nella chiesa di Santa Maria Assunta nella cappella di Sant’Andrea, dove oggi c’è l’ingresso alla sacrestia.

 

Pentecoste
Camillo Angelucci (attribuito) (attivo tra il 1540 e il 1584).
Tempera su tavola, cm 235×182.
Proviene dalla chiesa di San Francesco.
Rappresenta la discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli.
La fonte di tale iconografia è negli Atti degli Apostoli (2, 1-13), dove si narra che, cinquanta giorni dopo la Pasqua, lingue di fuoco si posarono su) capo degli Apostoli, che iniziarono a parlare lingue straniere.
L’episodio, significativo dell’unità linguistica perduta a Babele, allude al ruolo missionario degli Apostoli nel mondo; l’iconografia della Pentecoste ebbe particolare impulso durante il Medioevo con l’Istituzione delle omonime confraternite e nel XVI secolo con la fondazione dell’ordine dello Spirito Santo da parte di Enrico III.

 

Madonna col Bambino tra i santi Giovenale e Pancrazio
Pittore romano della seconda metà del XVIII secolo.
Proviene dalla chiesa di San Giovenale.
Raffigura, oltre al santo titolare della chiesa, il patrono di Calvi.
Nato nel III secolo d.C. in Frigia, attuale Turchia, da genitori romani, alla loro morte Pancrazio si trasferì a Roma, dove incontrò papa Marcellino e si convertì al cristianesimo.
All’età di 14 anni fu catturato e portato al cospetto dell’imperatore Diocleziano e, essendosi rifiutato di abiurare, venne condannato alla decapitazione.
Il corpo fu sepolto nelle catacombe di Calepodio, dove, circa dieci anni dopo, venne eretta una Basilica.
Qui la comunità cristiana di Roma si riuniva ogni anno per presentare al santo i neobattezzati.
Il suo culto, cresciuto al punto che gli furono dedicate le Catacombe, la Basilica e la stessa porta Aurelia, si diffuse da Roma in molte parti della penisola e fuori.
Quanto a Calvi, la tradizione vuole che i giovani Pancrazio e Vittore, patrono di Otricoli, cavalcando verso il monte di Calvi fecero a gara per guadagnare la vetta e diventarne i protettori; con tre soli balzi Pancrazio giunse ove è sorta la chiesa a lui dedicata.
Questa leggenda trae verosimilmente origine dalla contesa tra calvesi e poggiani per il possesso della montagna, rievocata ogni anno durante la festa del patrono il 12 maggio.

 

Immacolata Concezione
Opera di Agostino Masucci.
Proviene dalla cappella del cimitero.
Raffigura l’Immacolata Concezione, ovvero il fatto che la Vergine fu concepita immune dal peccato originale, perché destinata a divenire la madre di Cristo.
Questo tema, noto fin dall’antichità e divenuto dogma della Chiesa dal 1854, iniziò ad essere rappresentato, probabilmente per la difficoltà di illustrare un concetto astratto, solo dalla fine del XV secolo.
Messa dapprima in relazione con le storie di Gioacchino e Anna, in particolare con l’Incontro alla Porta Aurea, l’Immacolata Concezione assunse nel tempo un’iconografia basata sulla interpretazione dell’Apocalisse, dove è descritta una donna vestita di sole e con una corona di stelle, che calpesta il serpente.
La codificazione del tema, con la Vergine vestita di bianco, con il mantello azzurro, che calpesta il serpente e retta su uno spicchio di luna crescente poggiato sulle nuvole, si deve alla pittura seicentesca spagnola, in particolare a Murillo e allo Zurbaran.
Apprezzato soprattutto nel periodo della Controriforma, questo modello si impose in tutta la pittura successiva ed ebbe notevole fortuna in età barocca.

 

Madonna del suffragio col Bambino e i santi Chiara, Francesco, Luigi di Francia, Elisabetta d’Ungheria
Paolo Nerocci
Datazione: 1670
Proviene dalla chiesa di San Francesco, come attestano le figure dei santi tutti appartenenti all’ordine francescano.
Il culto della Madonna del Suffragio, che intercede in favore delle anime purganti, ebbe particolare sviluppo in epoca contro riformista in risposta alle teorie luterane, che negavano l’esistenza del Purgatorio e avversavano il culto dei santi e della stessa Madonna, perché accusati di distogliere il fedele dall’adorazione dell’unico vero Dio. 

 
 

TERZA SALA

Nella terza sala si trova collocata nella vetrina una collezione di argenti antichi provenienti dalle chiese di Calvi, tra cui un Reliquiario donato proprio dalla famiglia Ferrini.
Le tele presenti, tutte della collezione Chiomenti –Vassalli, appartengono alla serie dei Pittori Fiamminghi e a quella dei Ritratti.
Spiccano su tutti i ritratti di Isabella Strozzi Costaguti e della Regina Cristina di Svezia, opera di Jacob Ferdinant Voet; il pittore raffigura la sovrana come una Minerva, con meravigliosi occhi azzurri, l’incarnato latteo del nord, in mano il pomo d’oro ed ai suoi piedi un leone.
 

Reliquiario
Maestro Argentiere Tommaso Benzi.
Primo quarto del XVIII.
Fu donato per il monastero dall’ultimo erede Ferrini, Francesco Demofonte, un anno prima della sua morte avvenuta nel 1715, come testimonia il cartiglio sulla base con l’iscrizione: “Franciscus Demophons Ferrinus monasterio erigendo dono fecit 1714” (Francesco Demofonte Ferrini face questo dono all’erigendo monastero nel 1714).
Al centro del nodo, tra la base e il reliquiario, è inciso lo stemma dei Ferrini: un angelo con la spada.

 

Ostensorio
Maestro Argentiere Giovacchino Belli.
Primo quarto del XIX secolo.
Ha un’ampia raggiera che si diparte da una teoria di due angeli e nuvole.
Un angelo eretto su un globo costituisce il fusto, mentre la base liscia è decorata da tre medaglioni con scene della Passione e da tre puttini seduti sul bordo con i simboli della crocifissione.
I punzoni sulla raggiera permettono di individuare l’autore dell’Ostensorio in Giovacchino Belli, esponente di una delle più famose famiglie di argentieri operanti a Roma tra la seconda metà del Settecento e la prima metà dell’Ottocento.

 

Ostensorio in Argento
Maestro Argentiere Bernardino II Maltraversi.
Prima metà del XVIII secolo.

 

Reliquiario in metallo argentato su supporto di legno
Anonimo
Prima metà del XVIII secolo.

 

Cartagloria in metallo argentato
Anonimo
Prima metà del XVIII secolo.
La Cartagloria era una tabella contenente i testi invariabili della massa.
Posta sull’altare, era usata come aiuto alla memoria del sacerdote.
Deriva il nome dalla tabella centrale che conteneva l’inizio del Gloria in excelsis, mentre sulle altre erano le preghiere del Canone e dell’Offertorio.
Costituita da fogli applicati sul legno e metallo, e spesso poggiati su piedini o fusto, poteva avere una struttura più o meno complessa, a volte tale da nascondere persino il Tabernacolo.
È entrata in disuso dopo il Concilio Vaticano IL Caratterizzata da ricci e volute piuttosto corpose, la disarmonia tra la porzione superiore e gli altri lati particolarmente espansi verso l’esterno potrebbe essere spiegata come un riadattamento di materiali già esistenti o, più probabilmente, con una scarsa disponibilità di mezzi finanziari, che non avrebbe permesso l’acquisto di lastre metalliche di maggiori dimensioni.

 

Il paradiso terrestre
Ferdinand van Kessel Anversa, 1648 – Breda, 1696
Olio su tavola di rame, cm 20,8 x 27.
Ferdinand van Kessel si iscrive nella linea dei temi di Jan Brueghel dei Velluti.
Appartiene effettivamente a questa dinastia fiamminga di artisti.
Jan van Kessel, suo padre, pittore di fiori e di piccole scene con animali, era figlio del pittore Hieronymus van Kessel e di Paschasia Brueghel, una delle figlie di Jan Brueghel dei Velluti.
Tutto questo spiega la parentela che riscontriamo nelle opere di pittori di questa famiglia. J. Campo Weyerman (1729), biografo dei pittori del nord, ha lasciato una lunga biografia molto piccante di Ferdinand van Kessel, di cui fu allievo.
I temi di animali prevalgono nella sua opera, ma egli dette anche largo posto e temi ironici dove le scimmie o i gatti prendono il posto degli uomini.

 

Paesaggio fiammingo con villaggio e fiume Malines
David Vinckboons, 1576-Amsterdam, 1631/1633
Olio su tavola di rame, cm 20,8 x 27.
Opera fiamminga dell’inizio del ‘600, che si inserisce nel concetto paesistico delle Fiandre in cui divenne famoso Jan Brueghel dei Velluti.
David Vinckboonsé uno dei pittori più dotati della sua generazione; di lui si lodano la qualità dei colori e la trasparenza delle vernici unite alla perfezione tecnica del fogliame degli alberi.
Il paesaggio, tipico della sua arte, è parallelo a diverse opere sue come la Festa nel parco di una villa (Anversa, collezione private), incisa da Nicolas de Bruyn; il Paesaggio con festa di nozze (già Milano, collezione Vittorio Duca) e la Kermesse contadina (Dresda, Gemaldegalerie).

 

Ritratto della regina Cristina di Svezia
Jacob Ferdinand Voet, detto “Monsù Ferdinando” e “Ferdinando dei ritratti“.
Anversa, 1639 – Parigi, 1689.
Olio su tela, cm.130 x 105.
Un modello illustre posa davanti ad un pittore: un re o una regina della più grande bruttezza.
Come dare al ritratto la maestà della sua funzione? Tiziano aveva vinto la sfida trasformando l’immagine di Carlo V in quella di un discepolo di Marco Aurelio.
Mutatis mutandis, Ferdinand Voet si cimenta in un esercizio difficile; Cristina era da giovane caduta da cavallo ed era rimasta deforme.
La sua figura era poco amena e piuttosto virile.
Voet incontrò la regina al Palazzo Riario alla Lungara.
Nel ritratto dipinto verso il 1670, Voet la ringiovanisce un po’; si sofferma sui suoi meravigliosi occhi azzurri, il suo incarnato latteo del nord, la sua capigliatura che al sole del sud diventa castana chiara.
Trasforma una donna brutta in una Minerva.
Gli archivi ci hanno lasciato traccia di un ritratto dipinto da Voet nel 1670 e pagato 180 scudi romani.
Un’altra versione di questo ritratto è conservata nel Palazzo reale di Stromsholm.
Un ritratto di Cristina, in busto e seduta, che ne riprende la posizione del viso e delle braccia, si trova alla Galleria degli Uffizi a Firenze.

 

Ritratto d’Isabella Strozzi Costaguti
Jacob Ferdinand Voet, detto “Monsù Ferdinando” e “Ferdinando dei ritratti“.
Olio su tela, cm. 71,5 x 59,5.
Il ritratto appartiene a una “Galleria delle belle“, genere nel quale si specializzò il pittore Voet che visse a Roma dal 1663 al 1678 e dal 1680 al 1681.
Si conoscono due altre interpretazioni dell’effigie della giovane donna, la prima nel castello di Veiano (Viterbo), collezione dei principi Di Napoli Rampolla, proveniente dalla famiglia Altieri, la seconda in una collezione privata di Monte Carlo, proveniente dalla collezione Odescalchi a Castel Camesino.
Voet é soprattutto noto come autore di serie di “belle“, nobildonne dell’aristocrazia romana.
Se una serie completa costituita dal cardinale Flavio Chigi si conserva ancora nel Palazzo Chigi di Ariccia, una serie equivalente, proprietà della famiglia Colonna che comprendeva nel 1783 40 pezzi, è andata dispersa.

 

Ritratto di giovane donna
Pierleone Ghezzi, 1674 -1755.
Olio su tela, cm. 85,5 x 68.
È una delle immagini più seducenti del Settecento in Roma.
Il modello è presentato di tre quarti in un’elegante veste da camera di seta gialla dal risvolto rosa e a fiorami, merlettato.
La figura si stacca da uno sfondo neutro con la base di un pilastro; questo ritratto presenta numerose analogie con il Ritratto di Carlo Albani (Stoccarda, Staats – Galerie).
Viene ad aggiungersi ad alcune effigi femminili dipinte verso 1720-1725, ai lati del Ritratto di una principessa Altieri (Ariccia, Palazzo Chigi, collezione Lemme), del Ritratto di una canonichessa dell’ordine Agostiniano (Toledo, Ohio, Toledo Museum of Art) e del Ritratto di donna (Nantes, Musée desBeaux-Arts), opera più tarda, dipinta dopo il 1730.

 

Ritratto di un giurista
Pietro Dandini Firenze, 1646 – 1712.
Olio su tavola, cm. 155 x 111.
Pietro Dandini appartiene ad una famiglia di pittori fiorentini di qualità, essendo nipote di Cesare Dandini (ca.1596-1656) e di Vincenzo Dandini (1602-1675).
Bambino, studiò la grammatica e imparò a leggere e scrivere da Valerio Spada, che era anche un disegnatore senza pari a penna di paesaggi, vedute e ritratti secondo la tradizione di Callot e di Della Bella.
Si formò come pittore presso lo zio Vincenzo; a lui deve un’ammirazione per le opere di Pietro da Cortona che potevano vedersi a Firenze.
Fu dotato di una grandissima tecnica esecutiva unita a libertà creative.
Francesco Saverio Baldinucci, figlio di Filippo Baldinucci, ha lasciato una biografia dell’artista, menzionando parecchi ritratti, ma non é ancora possibile identificare il modello.

 
 

QUARTA SALA

La quarta sala ospita la serie dei Paesaggi e quella dei Soggetti di Genere della collezione Chiomenti – Vassalli: una serie di vedute di rovine e di paesaggi tra i quali spiccano le due grandi tele della metà del XVII secolo di Pietro Montanini, detto Petruccio Perugino raffiguranti un Paesaggio montano con forte vento e contadini ed un Paesaggio con forte vento e mulo ostinato, concepite in pendant.
L’opera più importante della sala è Monaci in una barca tirata a riva di Alessandro Magnasco detto Il Lissandrino, dipinta probabilmente dopo il 1730.
 

Monaci in una barca tirata a riva
Alessandro Magnasco, detto il Lissandrino Genova, 1667 – 1749.
Olio su tela, cm. 71,5 x 95.
Il paesaggio unisce due temi favoriti del Magnasco: la tempesta di mare ed i monaci francescani su una barca in primo piano.
L’opera, dipinta verosimilmente dopo il 1730, mostra una foga del pennello con una rapidità di tratto che si trova soprattutto in questa epoca; il tocco si divide.
Si notano numerosi piccoli tocchi bianchi che rilevano i grigi ed i marroni; ne troviamo altri esempi in Sant’Agostino incontra il Bambin Gesù sul greto d’una spiaggia durante una tempesta (Genova, Galleria di Palazzo Bianco) e nei Francescani che invocano il cielo di salvare dei naufraghi (Firenze, collezione Calamai).

 

Capriccio architettonico con figure presso un corso d’acqua
Giovanni Paolo Panini Piacenza, 1691 – Roma, 1765.
Olio su tela, cm.61 x 50.
Opera giovanile di Panini, di cui sappiamo che lasciò Piacenza per Roma nel 1711, che si ispirò alle opere di Giovanni Ghisolfi e segui le lezioni di Benedetto Luti.
Si nota qui una cultura classica vicina ai modelli di Andrea Locatelli.
Ferdinando Arisi lo data verso gli anni 1718 – 1720 e lo mette in relazione con due Prospettive con rovine (Cambridge, Mass., Fogg Art Museum), Luna con l’Adorazione dei Pastori, l’altra con l’Adorazione dei Magi. L’originalità del Capriccio sta nel fatto che il portico forma un ovale, tema originale che si ritrova nei due quadri del Louvre, Concerto all’interno di una galleria di ordine dorico e il Gran festino sotto un portico d’ordine ionico, dipinti tra il 1720 e il 1725.

 

Le rovine del tempio di Saturno al foro
Andrea Locatelli Roma, 1695 – 1741.
Olio su tela, cm. 47 x 38.
Locatelli, pittore romano di paesaggi, è citato nelle Vite di Nicola Pio (1724), che lo conobbe, come allievo di suo padre Giovanni Francesco e di “Monsù Alto” (“Hooch”), pittore ultramontano di paesaggi e di marine. Pierleone Ghezzi, in una caricatura del 1726, nota “famoso pittore di paesi, ma pretende più in poesia che in dipingere. Ma nei paesi e valentuomo“.
Pierre-Jean Manette, famoso dilettante francese, lo ricorda come “egregio pittore di paesaggi. Questo artista ha un tocco largo e i toni dei suoi colori hanno del brillante. Mette nei suoi quadri delle piccole figure che li tendono molto gradevoli“.
Le Rovine del tempio di Saturno è opera giovanile di Locatelli, parallelo a opere contemporanee di Giovanni Paolo Panini; la tela si avvicina ad un’altra interpretazione dello stesso soggetto nella collezione Francisci di Roma. Locatelli e qui pittore di ruderi e non di vedute.

 

Arco dritto
Andrea Locatelli Roma, 1695 -1741.
Olio su tela, cm. 64 x 48.
Paesaggio di rovine di Locatelli, opera di giovinezza dipinta verso il 1720, che interpreta con fantasia il sito, evocando l’arco romano e le pendici del Palatino.
È differente delle interpretazioni del tema.
Negli stessi anni dipinge l’arco visto di fronte (Roma, Galleria Corsini), con il monumento visto in grande al centro.
Alla fine della vita, riprende il motivo nella Sosta dei contadini davanti all’Arco di Tito (Praga, Narodni Galene), tela ovale il cui primo piano evoca la pittura di genere dei “Bamboccianti” e il cui pendant, un Ballo di contadini davanti ad una locanda e firmato e datato 1741; ciò dimostra la permanenza dei temi migliori in Locatelli per tutta la sua carriera. 

 

Battaglia di cavalleria Saint-Hippolyte
Jacques Coutrois, detto il Borgognone, 1621 – Roma, 1675.
Olio su tela, cm. 111 x 155.
Rappresentazione esemplare della pittura barocca di battaglia, genere nel quale eccelle Jacques Courtois.
Era originario dalla Franca Contea, o Borgogna contale; da qui deriva il soprannome di Borgognone.
A Milano, si arruolò nell’esercito spagnolo e fece vita militare per tre anni.
Cosi furono da lui preferiti i temi di soldati, battaglie, cavalli; con Salvator Rosa e Adam-Frangois van der Meulen è il miglior pittore di battaglie del suo secolo.

 

Paesaggi dei dintorni di Roma
Bougnon Francois Simonot, detto Monsù Francesco Borgognone (Hautc-Saone) 1660 – Roma, 1731.
Due dipinti ad olio su tela, cm.47 x 111 ciascuno.
Capricci fondati su monumenti di Roma e dintorni, animati da figure di cacciatori, viaggiatori e contadini: tema classico della pittura di paesaggio a Roma, attorno a Jan Fran van Bloemen, detto Orizzonte.
Francois Simonot é il cognato di Christian Reder, detto Monsù Leandro (Lipsia, 1656 – Roma, 1729), autore delle figure dei due dipinti.
Pierleone Ghezzi, nel 1724, ci ha lasciato una caricatura di Simonot, con la scritta: “Monsù Francesco famoso paesagisto a guazzo e a oglio e che si faceva pagare una doppia al giorno“.
Simonot collabora con Ghezzi negli affreschi delle proprietà del Cardinal Falconieri a Torrimpietra e a Frascati.
A Roma, lavora a Sant’Andrea delle Fratte con Christian Reder una parte dei suoi paesaggi a tempera su muro è conservata, formando galleria. E’ il capolavoro dell’artista francese che ha sempre vissuto a Roma; tra i suoi dipinti su tela ricordiamo tre Paesaggi con figure (Torino, collezione privata) e due Paesaggi (Forlì), Pinacoteca Civica).

 

Due capricci veneziani
Giacomo Guardi Venezia, 1764 —1835.
Olii su tela, cm 35 x 45 ciascuno.
Le due piccole tele mostrano paesaggi della laguna Veneziana.
Sono ornati di rovine e portici all’antica e animati da piccole figure abbozzate.
Giacomo Guardi riprende un tema trattato a più riprese da suo padre Francesco.
Godeva a suo tempo di ottima reputazione: G.B. Missagia (Biografìa universale, Venezia, 1826) scrive che Giacomo viveva a Venezia e che lì esercitava la stessa attività del padre.
I viaggiatori stranieri, in particolare inglesi, erano attratti dalle sue pitture in cui continuava la maniera di suo padre.
Nel 1828, Lord Dover comprò a Venezia, a ricordo della sua visita, la collezione di Giacomo Tarma, che comprendeva novantasei dipinti di Giacomo Guardi, quattro dei quali ancora oggi conservati al Fitzwilliam Museum di Cambridge.

 

Paesaggio con figure
Alessandro Magnasco detto il Lissandrino (Genova 1667-1749) Sec. XVIII.
Olio su tela, cm 22,4 x 54,5.
Il tema dell’opera “Paesaggio con figure” è molto evidente ed è ispirato a quello della vita campestre, con uomini e donne rappresentati in perfetta armonia con la natura e placidamente assoggettati alle sue regole.
Il ductus pittorico è fatto di tocchi veloci che portano alla smaterializzazione delle forme arboree in un paesaggio che, in qualche modo, perde la sua centralità.
Le figure infatti appaiono velocemente abbozzate con colori simili al fondo, mentre rapide pennellate di un bianco corposo ne scolpiscono i volumi e ne accendono di vita i gesti.
In questi senso l’artista è veramente il precorritore delle istanze pre- illuministe che, alla fine della prima metà del XVIII secolo, stavano già iniziando ad investire il pensiero e la cultura europea del periodo.

 

Festa di contadini nelle campagne romane
Michelangelo Cerquozzi (Roma, 1602 – 1660).
Olio su tela, cm. 53,5 x 74,1.
Una Bambocciata, genere di pittura secentesca, volto a rappresentare, con effetti di luce e colori a forti tinte, la vita quotidiana (scene di strada e di mercato, feste e processioni), in aperto contrasto con la pittura ufficiale del barocco romano.
Tipica scena della vita a Roma e dintorni.

 

Vasi di fiori e pappagalli
Gaspar Peeter Verbruggen il Giovane(Anversa, 1664 – 1730).
Due dipinti a olio su tela cm 82 x 95.

 

Paesaggio montano con forte vento e contadini
Pietro Montanini, detto Petruccio Perugino Perugia, 1626 – 1689.
Olio su tela 149 x 130.
Paesaggio animato di piccole figure trattata alla maniera di scene di genera, con un gruppo di contadini presso un fiume nel quale due donne fanno il bagno.
A suo proposito, l’abate Orlandi (Abbecedario Pittorico) scrive: “Spiritoso e bizzarro pittore, imparò da Pietro Barsotti suo zio, poi da Ciro Ferri, in ultimo da Salvatore Rosa, i di cui paesi, sassi, e dirupi imitò con grande studio, introducendovi belle figurine di macchia, molto stimate in Francia ed in altri luoghi“.
E Luigi Lanzi soggiunge: “Riuscì a piacere e fu ricercato anche nei paesi ultramontani; le case di Perugia sono ripiene di suoi piccoli paesaggi“.

 

Paesaggio con forte vento e mulo ostinato
Pietro Montanini, detto Petruccio Perugino Perugia, 1626 – 1689.
Olio su tele 149 x 130.
Pendant del Paesaggio montano con forte vento e contadini, con la scena pittoresca del mulo impuntato su une strada vicina a grandi alberi e a rovine romane.
L’atmosfera deriva dai temi di Salvator Rosa; i suoi piani di ombre e di luce, il suo fogliame stilizzato ricordano i modi del Rosa.
Le opere di Montanini sono oggi diventate poco comuni, nascoste da attribuzioni ad altri artisti; ricordiamo i due paesaggi della collezione Denis Mahon di Londra, Paesaggio con Sant’Antonio abate e San Paolo eremita e Paesaggio con figure.

 

Paesaggi boscherecci
Antonio Francesco Peruzzini.
Due dipinti a olio su tela ovale, cm. 67 x 55.
Due paesaggi in cornici ovali con cieli tempestosi ed elementi architettonici, animati da piccole figure di contadini in primo piano.
Appartengono al periodo milanese del Peruzzini, mostrano affinità con le opere di Pieter Muller, detto Pietro Tempesta, e di Carlo Antonio Tavella.
Dal 1703 al 1713, risiede a Firenze, lavorando per la corte granducale; vi incontra Alessandro Magnasco, con il quale collabora.
È il suo periodo più fecondo; l’interesse delle opere di Peruzzini consiste nel fatto che queste formano un legame fra le varie culture della pittura di paesaggio nell’Italia settentrionale e nell’Italia centrale, intrattenendo rapporti con Alessandro Magnasco, Sebastiano Ricci e Marco Ricci, che fu probabilmente suo allievo a Firenze.

 

QUINTA SALA

Nella Quinta sala si trovano i quattro capolavori della collezione Chiomenti-Vassalli.
Il primo è uno spettacolare dipinto di Pompeo Batoni, La fuga di Enea da Troia, opera classica ed importante di questo pittore, siglata e datata 1755.
Il vero tesoro di questa collezione è la tela di Pieter Brueghel il Giovane raffigurante La Parabola dei Ciechi, databile al primo quarto del XVII secolo, che mostra quattro ciechi in un paesaggio abbozzato, ispirato ai dintorni di Bruxelles.
Di grande fascino è La Maddalena Penitente di Guido Reni, dipinta tra il 1634 ed il 1635, che colpisce e affascina per lo sguardo sensuale della giovane donna e la bellezza del suo incarnato.
L’ultima tela presente nella sala è l’Andromeda di Francesco Furini, uno dei temi più felici del pittore; il dipinto, realizzato nella prima metà del Seicento, mostra la giovane senza veli.
 

La fuga di Enea da Troia
Pompeo Batoni Lucca, 1708 – Roma, 1767.
Olio su tela, cm.128 x 138.
Siglato e datato sul pilastro a sinistra: “G.P.B./ Copi mia (?) / 1755“.
Opera classica e importante di Pompeo Batoni, studiata da Roberto Longhi, Mina Gregori, Andreina Griseri e Isa Belli Barsali, presentata alla mostra di Batoni a Lucca nel 1967.
Proviene dalla collezione Ulrico Bracci di Firenze. Una versione anteriore, datata 1748, si trovava nella collezione dei marchesi Poschi-Meuron di Lucca.
Un’altra diversa composizione, dipinta alla stessa epoca, si trova oggi alla Galleria Sabauda di Torino.
Si può ricordare l’elogio di Onofrio Boni (1787): “Un uomo come il nostro pittore, fatto della Natura per sentire tutte le grazie, non poteva non riuscire in soggetti teneri ed appassionati. Aveva per questi un talento veramente poetico“.

 

Veduta con arco di Costantino, Meta Sudans, Arco di Tito e Pendici del Palatino
Giovanni Paolo Panini, 1764 ca. Piacenza 1691 – Roma 1765.
Olio su tela, cm 69 x 132.
Si tratta di un’opera in stretta relazione con il dipinto dello stesso soggetto, ma di dimensioni minori, della Galleria Nazionale di Praga.
La descrizione della valle del Colosseo è precisa: sulla sinistra il possente lato dell’Arco di Costantino, al centro intravediamo le pendici del Palatino mentre in primo piano c’è la Meta Sudans, la monumentale fontana di età Flavia oggi non più esistente; a seguire, sempre sullo sfondo, l’arco di Tito uno dei soggetti più frequenti del pittore che lo raffigurò sia in “capricci” sia in vedute.
La luce del tramonto crea un’atmosfera sospesa, resa viva e palpitante dalle figure che abitano il dipinto.

 


La chiamata di San Pietro e Sant’Andrea

Pietro da Cortona, Pietro Berrettini, Cortona 1596 – Roma 1669.
Tempera su carta, mm 370 x 540, 1630 ca.
L’inedita tempera su carta della collezione Chiomenti-Vassalli riporta uno degli affreschi della cappella di Villa Sacchetti-Chigi a Castel Fusano.
La Vocazione di Pietro e Andrea viene rappresentata in un paesaggio monumentale caratterizzato dalla luminosa presenza del lago al centro del quale si erge un’isola sulla quale c’è una città idealizzata.
Per narrare il passo del Vangelo con la Pesca miracolosa, il pittore concentra la sua attenzione sulla figura di Pietro che sta per gettarsi ai piedi di Cristo dopo il rientro delle barche a riva.
Dopo il miracolo delle reti piene di pesci, Pietro accetta senza riserve di seguire Cristo per diventare “pescatore di uomini“.
 

Veduta di Roma: il campo vaccino dal Campidoglio, con a sinistra la loggia dell’Aracoeli
Gaspar Van Wittel o Gaspare Vanvitelli Utrech 1653 – Roma 1736.
Tempera su pergamena, cm 31,4 x 39,8.
L’opera è firmata su un pilastro in basso a sinistra: G.v.W ed è databile tra il 1684 e il 1685.
L’originalità di Van Wittel, arrivato a Roma nel 1674/1675, consiste nell’aver introdotto in Italia le rappresentazioni di vedute reali, un tema che già esisteva in Olanda da tempo e probabilmente anche l’uso della camera ottica per ottenere una visione esatta dei luoghi “rappresentati“.
Questo quadro deriva da un modello di disegno datato 1682 avente funzione di cartone, conservato alla Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele di Roma e l’opera di riferimento è la tempera della collezione Colonna a Roma (n. 540), anch’essa su pergamena (22,9 x 43,6 cm) datata 1683.
Quest’opera offre un formato diverso, meno allungato per via della presenza di uno spazio di cielo più largo che conferisce alla composizione un aspetto più atmosferico.
Quello che più colpisce è l’estrema delicatezza dei colori e il fatto che le parti parzialmente all’ombra rimangano luminose.
Nell’angolo inferiore destro appaiono in ombra pezzi di colonne, di cornicioni e marmi antichi; le figure presenti sono diverse rispetto al quadro Colonna; soltanto un abate sotto il loggiato dell’Aracoeli è lo stesso, lievemente spostato.
Parimenti un altro abate, che nel quadro Colonna è di profilo verso destra, qui è di profilo a sinistra e guarda una zingara velata che chiede l’elemosina; lì abbiamo un mulo carico all’estrema destra, mentre qui vediamo un asino col basto e un cane nello stesso punto.
Gaspar Van Wittel varia questi personaggi e nonostante la ridotta dimensione imprime loro una vera vita.
La versione definitiva di questa composizione è la tela della Galleria Pallavicini a Roma, Inv. 540, posteriore di qualche anno (1685/1690), più grande (49 x 98) e meno ricca di particolari.

 


La parabola dei ciechi

Pieter Brueghel il Giovane, 1610.
Si tratta di una pittura di genere che si sviluppa intorno al 1600, un secolo che manifesta una crisi economico-sociale in tutti i paesi dell’Europa Occidentale, in cui aumentano delle differenze tra quei luoghi in cui si assiste a un ritorno all’economia agricola, come l’Italia, e quelli in cui invece comincia a svilupparsi il commercio, come Francia e Olanda.
Il paesaggio è quello di una semplice campagna; la faccia del primo uomo sulla destra, rovesciato sulla schiena, non è visibile, il secondo gira la testa durante la caduta, forse per evitare di ruzzolare con la faccia per terra. Il terzo uomo condivide il bastone con il secondo dal quale sarà trascinato; il quarto aggrappato alla spalla del terzo deve ancora inciampare, ma seguirà inevitabilmente lo stesso destino; è solo questione di pochi attimi, di pochi passi.
Quest’opera oltre a rappresentare una scena popolare è anche allegorica, il quadro è ispirato al Vangelo di Luca: “Può forse un cieco fare da guida a un altro cieco?” e a quello di Matteo: “Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso!” ma anche a un proverbio fiammingo: “Quando un uomo cieco ne guida un altro ambedue cadranno in una fossa“.
Il dipinto mostra in maniera realistica la condizione incerta dell’uomo e la sua cecità spirituale.
Al pittore non interessa la disabilità fisica e non vuole affatto prendersi gioco di questi sventurati personaggi; con questa catena umana vuole però simboleggiare che se non si è capaci di vedere, pensare e scegliere con la propria testa e ci si affida semplicemente agli altri, poi c’è il rischio di essere trascinati in una fossa, ovvero di finire male.
 

Maddalena penitente
Guido Reni Bologna, 1575- 1642.
Olio su tela, cm 80 x 64.
La Maddalena fu studiata da Stephen Pepper come opera inedita del Reni, con una datazione agli anni 1634-1635, epoca nella quale Guido adopera colori più chiari con i riflessi dell’iride.
I prototipi della Maddalena penitente sono le interpretazioni del tema in cui la giovane donna è seduta ed in estasi (Roma, Galleria nazionale d’Arte antica) e quella dove essa è inginocchiata e in preghiera a petto nudo. Queste due tele sono di grande formato.
Stephen Pepper ravvisa nella Maddalena Chiomenti una versione di gran qualità del tema, vicina alla Maddalena (Baltimore, Walters Art Gallery), tela che si presenta simile, tuttavia dalle tinte più grigio argentato, così come alla Maddalena (coll. Byng), tanto per la resa sensuale della giovane donna, la bellezza del suo incarnato, i colori chiari e le ombre più trasparenti.

 

Andromeda
Francesco Furini Firenze, 1602 – 1646.
Olio su tela, cm 99,5 x 75.
Andromeda è uno dei temi più felici di Francesco Furini; il dipinto inedito, databile alla fine della carriera del maestro, mostra la nudità della giovane senza veli, come la tela del Szépmuvészeti Museum di Budapest, mentre la versione più conosciuta di Andromeda parzialmente velata è quella dell’Ermitage di San Pietroburgo.
La storia del dipinto è incerta; Filippo Baldinucci scrive che al suo ritorno da Venezia Furini “con maggior credito, maggiore fu anche il numero delle opere, che gli furono ordinate da nostri cittadini… e fra queste una Andromeda per la maestà dell’Imperatore”.
Sembra che il viaggio a Venezia si situi verso il 1629; ciò permette di fissare meglio la data dell’Andromeda.
L’arte di Furini circonfusa di vapori bluastri esprime qui un idealismo impregnato di erotismo.

 

SESTA SALA

La sesta e ultima sala ospita la serie dei Soggetti Sacri ed inoltre due Nature Morte con Tappeti di Francesco Noletti, detto “Il Maltese” della Collezione Chiomenti-Vassalli.
L’opera più significativa di questa sala è la Condanna del Giansenismo a Roma nel 1641 di Andrea Sacchi e Jan Miel nella quale viene rappresentata la riunione avvenuta il 1° agosto 1641 nel convento dei Domenicani di Santa Maria sopra Minerva per la condanna da parte dell’Inquisizione romana del trattato dell’Augustinus, sulla grazia divina, scritto dal teologo Cornelius Jansenius e stampato a Lovanio nel 1640.
 

Estasi di San Filippo Neri
Pier Leone Ghezzi, Roma, 1674 – 1755.
Olio su tela, cm. 116 x 98.
San Filippo Neri, i cui tratti sono ben conosciuti, è raffigurato in preghiera con le mani appoggiate su un teschio e un libro, davanti a un crocifisso.
La tela è in rapporto con la devozione del papa Benedetto XIII Orsini, scampato ad un terremoto a Benevento nel 1686, ove era vescovo, grazie a un miracolo di San Filippo.
Ghezzi dipinse a due riprese il tema del Miracolo di San Filippo nel modello conservato nelle Stanze di San Filippo (Roma, S. Maria in Vallicella) e nella pala d’altare della chiesa di San Filippo a Matelica (Macerata); qui, Ghezzi interpreta il tema con una sensibilità impregnata del gusto del tardo barocco romano.

 

Nature morte con tappeti
Francesco Noletti, detto “Il Maltese“.
La Valletta, Malta, ca.1611 – Roma, 1654.
Due dipinti a olio su tela, cm.73,5 x 99,5 ciascuna.
Queste nature morte sono fra le tele più vicine ai due archetipi della produzione del Maltese della collezione Boyer d’Aguilles a Aix-en-Provence, incisa da Jacques Coelemans nel 1704.
Vocabolario e interpretazione sono tipici del pittore misterioso, abitualmente chiamato Francesco Fieravino, detto il Maltese, attivo a Roma alla meta del Seicento. La scoperta recente di un Ritratto commemorativo del pittore maltese Francesco Noletti (La Valletta, Fondazione per Studi internazionali), opera anonima, dove questo é ritratto di fianco a una natura morta con un tappeto e che comporta una lunga iscrizione biografica ha suggerito di riconoscere in Francesco Noletti “il Maltese“.
L’identificazione rimane un’ipotesi.
Se Noletti è abbondantemente citato negli archivi parrocchiali romani, tutte le menzioni antiche di nature morte con tappeti parlano del “il Maltese” e non si possiede nessuna tela firmata.
Nel 1666, André Félibiendes Avaux cita nei suoi Entretiens “Fioravanti e il Maltese, reputati per tappeti, strumenti musicali, vasi ed altre cose“.
Félibien per i suoi rapporti con Nicolas Poussin è uno dei più fini intenditori della pittura romana; permane dunque l’ambiguità.

 


Condanna del Giansenismo a Roma

Andrea Sacchi e Jan Miel, Beveren-Waes, 1599 – Torino, 1663.
Olio su tela, cm. 128 x 162.
Datato, in basso a sinistra, 1641.
Il trattato dell’Augustinus, sulla grazia divina, dal teologo Comelius Jansenius, stampato a Lovanio nel 1640 fu condannato dall’Inquisizione romana il 1° agosto 1641.
La scena si svolge in una sala di stile gotico del convento dei Domenicani di S. Maria sopra Minerva a Roma, che vide il processo di Galileo e nel 1687 l’abiura del monaco spagnolo Miguel de Molinos.
Andrea Sacchi e Jan Miei avevano imparato a lavorare insieme: l’ingresso del Papa Urbano VIII nella chiesa del Gesù (Roma, Museo di Roma) testimonia la loro collaborazione negli anni 1640-1641.
Lo stesso Sacchi non aveva trascurato gli effetti di massa nella Giostra del Saraceno a Piazza Navona (Roma, Museo di Roma) del 1634.
Qui, la mano del pittore fiammingo Jan Miei si riconosce nei particolari pittoreschi del primo piano, nelle guardie svizzere e nelle persone che stanno calmando dei cani.
 

La Sacra Famiglia (Madonna Montalto)
Copia da Annibale Carracci.
Olio su rame, cm 106 x 96.
Tra le prime opere dipinte da Annibale Carracci a Roma, la Madonna Montalto, oggi conservata alla National Gallery di Londra, ebbe grande successo tanto che se ne conoscono molte copie.
La novità della composizione, basata sulla rappresentazione di un’istantanea, il momento in cui san Giovannino afferra il manto di Maria e questa, con lo sguardo sorpreso, tenta di rimanere in bilico sulla sedia tenendo il Bambino era ciò che più piacque ai contemporanei.
La copia della collezione Chiomanti Vassalli è leggermente più grande dell’originale; San Giuseppe è dipinto senza aureola così come nell’originale e ci indica che il dipinto non è stato tratto dalla famosa incisione di Bloemaert che circolava in tutta Europa, ma direttamente dall’originale.

 

La Sacra Famiglia
Studio di Carlo Maratti o Maratta Camerario (Ancona, 1625 – Roma, 1713).
Olio su tela, cm. 67 x 88.
Il carattere lineare e purista accentuato dell’opera evoca le fonti classiche raffaellesche con una semplicità di forme in cui non manca il richiamo alle tele contemporanee di un altro pittore marchigiano, il Sassoferrato.
Si nota qui il passaggio da una visione essenzialmente pittorica e colorista a una concezione lineare e intellettuale.
Alla forza creatrice si aggiunge una riflessione astratta.
Carlo Maratti, nel 1650, fonda la sua fama sull’Adorazione dei pastori (Roma, San Giuseppe dei Falegnami), dove si afferma la tendenza al purismo.

 

Fonti documentative

Cartellonistica in loco
Pino Milani – Guida di Calvi dell’Umbria – Calvi dell’Umbria aprile 2013
Comune di Calvi dell’Umbria – Calvi dell’Umbria e il suo territorio Città d’arte storia e tradizioni
Musei in Umbria Museo delle Orsoline Calvi dell’Umbria
http://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/pagina.pl?TipoPag=prodente&Chiave=46568

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(Testi e coordinamento Francesca Troiani)
 

Da vedere nella zona

Castello di Calvi dell’Umbria
Chiesa di Sant’Antonio Abate
Chiesa di Santa Maria Assunta
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