Abbazia di San Salvatore di Valdicastro – Fabriano (AN)

Foto esterne e chiostro – 2008/2013

 

Foto Convento e sala del Capitolo – 2008/2013

 

Foto Chiesa e Cripta – 2008/2013

 

Foto prima dei restauri e degli anni ’50

 

Abbazia di San Salvatore di Valdicastro è di proprietà della Cooperativa Agricola San Romualdo, quindi privata, prima di aggirarsi nella proprietà è meglio telefonare a Zenobi Filippo 3386128954 che molto gentilmente ascolterà le vostre esigenze

 

Cenni Storici

TERRITORIO

E’ uno degli insediamenti più orientali dell’area situata in una angusta valle posta al centro della dorsale marchigiana, circondato dai monti Mitola, Cimara, Pietroso, della Sporta, Maltempo, Moscosi, Cipollara sui quali incombe il versante settentrionale del S. Vicino, giace su un terreno costituito da depositi detritici ed eluvio-colluviali di origine quaternaria probabilmente erosi o franati dalle formazioni calcaree di maiolica, calcare massiccio e diasprino dei rilievi circostanti. L’elevata antropizzazione della zona risale, con la presenza dei monaci, già al XII sec.; nell’area più prossima all’abbazia il terreno, in piccole particelle a forte acclività, è utilizzato per colture promiscue di graminacee e foraggio in mezzo alle quali si ergono esemplari secolari di castagno retaggio, forse, di antiche coltivazioni; una faggeta avviata ad alta fusto giunge quasi fino alla sommità dei rilievi occupati da pascoli
secondari. (m.r.g.)

LINEAMENTI STORICI

Non sussistono dubbi sulla paternità romualdina dell’abbazia di Valdicastro, come si legge nella Vita del santo ravennate, scritta da S. Pier Damiani negli anni 1042-1043: “Nel frattempo Romualdo, sentendo che il beatissimo Bonifacio aveva subìto il martirio, ardentemente acceso dal desiderio di spargere il suo sangue per Cristo, dispose di andare subito in Ungheria. Sempre restando fermo su questa intenzione, costruì in breve tempo tre monasteri: cioè uno in Val di Castro, dove ora è sepolto il suo santissimo corpo, un altro presso il fiume Esino, un terzo che costruì presso la città di Ascoli” (cap. 39). La data di fondazione del monastero di Valdicastro è da collocarsi, pertanto, tra il 1009, anno della morte di S. Bruno Bonifacio di Querfurt, discepolo di S. Romualdo, e il 1010, anno della partenza del santo ravennate per la missione in Ungheria. Tuttavia già intorno al 1005 S. Romualdo, recatosi nel Camerinese, ha costruito a Valdicastro alcune celle (cioè un eremo) per sé e i discepoli sulle terre donategli dai conti della zona (secondo il Pagnani, gli stessi che nel 1003 beneficarono S. Maria d’Appennino) e non da Farolfo (come si trova scritto da più parti), il quale era conte di Orvieto. Sul luogo esisteva già una piccola chiesa con annessa l’abitazione di alcune monache. A Valdicastro Romualdo soggiorna altre due volte: la prima verso il 1012, allorché trova che l’abate, contravvenendo ai suoi ordini (avrebbe dovuto uscire dalla propria cella solo nelle principali festività dell’anno per le esortazioni spirituali ai monaci) ha disertato completamente l’eremo; da lui rimproverato, l’abate diventa, secondo la Vita, “da cattivo peggiore” e con “sacrilego inganno” induce le contesse del luogo a far distruggere i tronchi preparati da Romualdo per la costruzione delle celle. Il Santo ritorna a Valdicastro poco prima di morire; a circa km 2 dal monastero si fa costruire una cella con oratorio (S. Biagiolo), dove rende l’anima a Dio il 19 giugno 1027. Cinque anni dopo il corpo, ritrovato incorrotto, viene riesumato e tumulato nella chiesa del monastero sotto l’altare maggiore. Con l’appoggio dei signori del luogo (domini loti) Valdicastro consegue ben presto un notevole grado di floridezza economica e spirituale, estendendo la propria giurisdizione su numerosi castelli, ville e chiese del territorio fabrianese. Nel secolo XIII la posizione egemonica e la potenza politico-economica dell’abbazia inizia, tuttavia, ad essere contrastata dai progetti espansionistici del comune di Fabriano, al quale nel 1218 i monaci di Valdicastro sono costretti ad assoggettare i propri vassalli nei castelli di Cerreto e di Albacina. Si ha notizia anche di un concordato, stipulato nel 1251 tra i due enti a conclusione di una lunga controversia circa i diritti di proprietà su alcune terre e sui quaranta coloni ivi dimoranti. In sede di consiglio generale, radunato nella chiesa di S. Venanzo, il monaco Valentino, sindaco di Valdicastro, cede ad Oratore di Rinaldo, sindaco del comune, parte della terra contesa, con facoltà di edificarvi un castello, a patto che gli abitanti corrispondano ogni anno all’abate di Valdicastro, a titolo di “pensione”, due denari nella festa di S. Romualdo (19 giugno) e che all’abate Pietro venga riconosciuto il diritto di franchigia sui vassalli
contesi. Oratore di Rinaldo, a nome del comune, accetta le condizioni del sindaco di Valdicastro, impegnandosi inoltre a versare all’abate 200 libbre di ravennati e anconetani per il restauro del monastero e a cedergli 24 tavole di area edificabile (circa mq. 1.056) per la costruzione di una chiesa nel futuro castello. Frattanto l’abbazia riesce ad estendere la propria zona di influenza sul territorio, soprattutto a spese dei signori locali. Nel 1219 il nobile Alberico da Matelica muove lite a Valdicastro per il dominio della quarta parte del castello di Civitella, situato presso l’abbazia, ma nel 1224 è costretto a rinunziare ai propri diritti. Successivamente il castello conteso conosce uno sviluppo edilizio e demografico (l’abate di Valdicastro nel 1240 ordina ad alcuni uomini di costruirvi nuove case) e nel 1310 viene ceduto al comune di Fabriano. Conflitti di interesse coinvolgono Valdicastro anche con l’abbazia di S. Vittore delle Chiuse, dalla quale nel 1176 ha ottenuto il castello di Civitella. Nel 1256 Pietro, abate di Valdicastro, con il consenso dei sette monaci della comunità, cede a S. Vittore, nella persona del sindaco e procuratore fra Rolando, ogni giurisdizione sopra alcune terre (coloni compresi) nella villa di Avenza (contado di Cerreto) come risarcimento della perdita dei diritti di proprietà su alcune chiese contese: S. Giovanni di Cerqueto, S. Stefano e S. Martino di Avenza, S. Maria di Albacina. Secondo una bolla di Urbano IV del 1262, Valdicastro ha alle proprie dipendenze il monastero di Acquapagana in diocesi di Spoleto e 47 chiese: S. Maria di Ficano (oggi Poggio San Vicino), S. Romualdo di Fabriano, S. Stefano di Camerino, S. Quirico di Serra San Quirico, S. Donato di Colbassano, S. Stefano di Genga, S. Maria in Campo di Fabriano (già di San Vittore delle Chiuse e di S. Croce di Tripozzo) e altre nelle diocesi di Camerino, Recanati, Osimo, Fermo, Senigallia, Nocera, Gubbio, Perugia, Spoleto. I rettori o cappellani, nominati dall’abate di Valdicastro, sono tenuti a corrispondere annualmente al monastero nella festa di S. Romualdo (19 giugno) un tributo in denaro o in natura: ducati, soldi d’argento, focacce, porchette, capretti, olio, grano, spalle di porco, polli. Frattanto importanti lavori di ristrutturazione e di ampliamento vengono compiuti soprattutto nella chiesa dell’abbazia sotto il governo dell’abate Marino, come testimonia un’iscrizione del 1262 nel maestoso arco ogivale avanti il transetto. I proventi e le rendite di Valdicastro sono notevoli se nel 1299 il monaco Giovanni, a nome dell’abate e della comunità, versa 41 libbre di ravennati ai collettori della decima imposta da Bonifacio VIII “per il ricupero della Sicilia”. Nella medesima occasione S. Elena, ad esempio, corrisponde 19 libbre e 10 soldi, Montefano 22 libbre e 17 soldi, S. Vittore delle Chiuse 35 libbre e 5 soldi, S. Maria di Valdisasso 50 soldi, mentre S. Maria d’Appennino e S. Biagio in Caprile nel 1334 versano alla Camera Apostolica, rispettivamente 40 libbre, e 23 libbre, 15 soldi e 8 denari ortonesi.
Dai documenti a noi pervenuti incisiva risulta la presenza degli abati di Valdicastro nella vita ecclesiastica fabrianese soprattutto nella prima metà del secolo XIV. Nel 1318, ad esempio, l’abate Ermanno (o Armanno) è incaricato da Giovanni XXII di dirimere la controversia tra S. Maria d’Appennino da una parte e S. Croce di Sassoferrato e S. Nicolò dall’altra per l’inurbamento della chiesa di S. Cristoforo. Il 17 marzo 1320 il comune di Fabriano viene colpito da interdetto per aver tenuto una posizione di neutralità nei confronti della lega ghibellina capeggiata da Federico di Montefeltro, che tenta di sottrarre le Marche al controllo della Sede Apostolica. Fra i colpiti dal provvedimento c’è anche l’abate di Valdicastro, che al pari degli altri ecclesiastici ottiene il condono dal rettore Amelio di Lautrec il 15 marzo 1322. Nel 1328, durante l’ultimo grande duello medievale tra “sacerdozio e regno”, Ermanno, a differenza degli altri abati e di numerosi ecclesiastici del contado fabrianese, si schiera, insieme con Matteo, priore generale di Montefano, a favore di Giovanni XXII. L’antipapa Nicolò V, eletto dall’imperatore Lodovico il Bavaro in opposizione al legittimo pontefice, nella bolla emanata da Viterbo il 5 novembre 1328 con la quale eleva la ghibellina Fabriano a sede vescovile, depone l’abate Ermanno per essere rimasto fedele all’eretico Giacomo di Cahors (Giovanni XXII), assegnando al nuovo vescovado tutti i beni di Valdicastro e di Montefano. Due giorni dopo l’antipapa nomina come primo vescovo di Fabriano Morico, abate di S. Biagio in Caprile, conferendogli anche il titolo di abate di Valdicastro e di priore generale dei Silvestrini. Fra gli ecclesiastici che il 14 agosto 1331 ottengono dal rettore della Marca d’Ancona l’assoluzione dalla scomunica nella quale sono incorsi i fautori dell’imperatore, ci sono quattro monaci di Valdicastro. Le tormentate vicende politiche locali della seconda metà del Trecento (lotte di fazione all’interno del comune di Fabriano), le calamità naturali (epidemie, carestie, terremoti, crisi nell’agricoltura), l’isolamento e la mancanza di monaci provocano la decadenza di Valdicastro. Nel 1394 l’abbazia, ormai fatiscente, rimasta priva di comunità (l’abate Angelo e i pochi monaci superstiti dimorano in case private) e divenuta ricetto di “porci” e di altri animali, da Bonifacio IX è ridotta a priorato e incorporata con tutti i beni all’eremo di Camaldoli. Nel 1397 lo stesso pontefice riconferma l’unione, ordinando al priore di Camaldoli di restaurare Valdicastro e di insediarvi una comunità monastica; decreta, inoltre, che Angelo, eletto nel frattempo procuratore generale dei Camaldolesi, rimanga superiore di Valdicastro con il titolo di abate vita natural durante e che i monaci assumano l’abito e abbraccino le consuetudini della Congregazione Camaldolese. Nel 1401 nella chiesa di Valdicastro, alla presenza di Gentile da Foligno, monaco di Sassovivo, e di alcuni laici di Fabriano e Porcarella in qualità di testimoni, Giovannino di Romano di Benincasa di Pucciolo del quartiere di S. Biagio di Fabriano, in ginocchio davanti all’altare maggiore, a mani giunte in quelle dell’abate Angelo, offre se stesso e i propri beni al monastero, promettendo stabilità, conversione dei costumi, castità, rinuncia alla proprietà, obbedienza e osservanza della regola di S. Benedetto e delle consuetudini dell’abbazia: è accolto “a pane e acqua” come monaco e professo, rivestito del bianco abito camaldolese e tonsurato. Frattanto i beni di Valdicastro sempre più frequentemente vengono usurpati o illegittimamente alienati da chierici e laici, non essendo più in grado la sparuta comunità monastica di far valere i propri diritti di proprietà sull’esteso patrimonio terriero. Nel 1406 Innocenzo VII incarica l’abate di S. Croce di Tripozzo di ricuperare i possedimenti di Valdicastro “illecitamente alienati”. Ma ormai l’abbazia, situata “in nemore et loco silvestri”, è sempre più soggetta ai pericoli delle guerre (incursioni, sopraffazioni, devastazioni), mentre i monaci, abbandonata la pratica della vita regolare, allo scopo di proteggere la propria incolumità, sono costretti a rimanere pressoché permanentemente nelle “abitazioni dei laici”. Nel 1427 Anselmo, abate di S. Biagio in Fabriano (in precedenza monaco silvestrino), vedendo che la sua comunità, formata di quattro monaci, versa in condizioni di estrema povertà a causa dei “turbini delle guerre” e di “altre calamità”, supplica Martino V di unire il proprio monastero, le cui rendite non superano i 40 fiorini d’oro, a quello di Valdicastro con un entrata annua quattro volte superiore (160 fiorini d’oro). Il pontefice accoglie la richiesta: S. Biagio viene incorporato a Valdicastro, il cui abate Eustachio, dopo la morte di Anselmo, sarebbe divenuto unico superiore dei due monasteri con il titolo di “abate di Valdicastro e di S. Biagio”; i monaci del cenobio urbano, governati da un priore claustrale nominato dall’abate di Valdicastro, avrebbero dovuto rivestire l’abito monastico e conformarsi alle consuetudini della Congregazione Camaldolese. L’abate Giovanni di Cecco da Fossato di Vico, successore di Eustachio e personaggio di grande prestigio all’interno del suo Ordine, partecipa attivamente anche alla vita ecclesiastica locale. Egli si preoccupa innanzitutto di ricostituire a Valdicastro una comunità stabile, di ripristinare l’osservanza regolare e il culto divino, di rinnovare le strutture dell’abbazia e di incrementarne le rendite. Nel 1439 Eugenio IV incarica l’abate Giovanni, insieme con il vescovo di Camerino e l’abate di S. Lorenzo in S. Severino, di insediare nel priorato di Montefano il silvestrino Stefano di Antonio da Castelletta. Due anni dopo lo stesso pontefice gli commette l’esecuzione della bolla di unione dell’abbazia di S. Maria d’Appennino alla collegiata di S. Venanzo di Fabriano. Nel 1441 l’abate Giovanni ottiene da Eugenio IV l’incorporazione a Valdicastro del monastero di S. Urbano presso Apiro (già da alcuni anni privo di monaci e ormai fatiscente) con tutti i possedimenti, in gran parte incolti o non adeguatamente coltivati, la cui rendita annua è di 50 fiorini d’oro. Nel frattempo, a causa dei “sinistri eventi” già ricordati, le entrate di Valdicastro, nonostante l’acquisizione di S. Urbano, sono scese a 150 fiorini. Per il sostentamento della comunità, composta di 12 monaci, e per il restauro dell’abbazia, bisognosa in più parti di riparazioni, nel 1444 Eugenio IV concede all’abate Giovanni le rendite delle chiese di S. Salvatore di Lanciano (14 fiorini d’oro) e di S. Paterniano di Colcello (15 fiorini d’oro), distanti “circa dieci miglia” da Valdicastro. Nel capitolo generale camaldolese del 1445 l’abate Giovanni viene eletto definitore o consigliere; in tale sede ottiene dal priore generale che vengano richiamati nel chiostro a condurre vita comune i monaci rettori delle chiese suffraganee di S. Biagio in Fabriano (S. Pietro di Moscano, S. Stefano di Vallemontagnana, S. Lorenzo, S. Maria di Collegiglioni, S. Paterniano e S. Angelo di Rosenga), riducendo a due i cappellani addetti alla cura spirituale delle popolazioni soggette a tali chiese. Negli anni successivi l’abate pone la propria residenza in S. Biagio in Fabriano, lasciando a Valdicastro una piccola comunità. Nel dicembre 1466 il priore generale Mariotto Allegri, salito a Valdicastro per venerare le spoglie mortali di S. Romualdo, il cui sarcofago è stato “temerariamente aperto dal monaco Bartolomeo con l’aiuto di un confratello il mese precedente, richiama la comunità alla pratica della regolare osservanza e impone all’abate di ritornare nel cenobio montano. Nel 1470 l’abate Michele, per il tramite dei fabrianesi Giovanni di Gaspare e Battista di Nicola, supplica Paolo II di unire Valdicastro e S. Biagio alla Congregazione di S. Giustina di Padova. La richiesta non è accolta, probabilmente per l’opposizione del priore generale dei Camaldolesi, il quale trasferisce ad altra sede Michele e assegna Valdicastro a Giuliano Amadei. Nel 1475 Sisto IV concede l’abbazia in commenda al card. nipote Giuliano della Rovere (futuro Giulio II). L’anno successivo, in seguito alla rinuncia del della Rovere (15 luglio 1476), diventa commendatario Giacomo Minutoli, vescovo di Nocera Umbra e poi di Agde in Francia. Nel 1481 il corpo di S. Romualdo viene traslato nella chiesa di S. Biagio in Fabriano. Valdicastro rimane in commenda fino al 1511, allorché il card. Francesco Soderini restituisce l’abbazia ai Camaldolesi. Nel 1652, in seguito alla soppressione innocenziana, il cenobio è ridotta a grangia o fattoria. I monaci, tuttavia, continuano ad officiare la chiesa. Il terremoto del 1741 provoca la caduta di parte della chiesa, che viene restaurata verso la fine del secolo. Nel 1808 i coloni dei monaci a Valdicastro devono subire le angherie delle truppe francesi. Il primo settembre di quell’anno, infatti, sei “pretesi” insorgenti, addetti ai servizi dell’abbazia (il guardiano, il fattore, due garzoni di stalla e due tagliaboschi), durante il sonno vengono arrestati e messi in carcere a Fabriano “con grande pompa e applauso degl’iniquissimi giacobini”. Nel 1810 il monastero è soppresso e viene assegnato in appannaggio al viceré Eugenio; dopo la restaurazione passa in mano a privati. Il 5 dicembre 1979 avviene la ricognizione del corpo di S. Romualdo – a 500 anni dalla sua traslazione a Fabriano – nella cripta della chiesa abbaziale e parrocchiale dei SS. Biagio e Romualdo. Una ricognizione al sarcofago d’epoca romana nella chiesa di Valdicastro (18 gennaio 1982) permette il rinvenimento di altre reliquie del Santo. (u.p. )

Tratto da “Abbazie e castelli della Comunità Montana alta Valle dell’Esino” di Giancarlo Castagnari

Un grazie grandissimo a Filippo Zenobi e all’Azienda Valdicastro per avermi permesso di pubblicare le foto.
Per approfondimenti maggiori: www.valdicastro.it

 

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