L’Abbazia, come tutti i terreni ad essa appartenuti sono di proprietà della Fondazione Gaslini di Genova, la struttura è visitabile su prenotazione, e spesso vengono organizzate visite guidate, si trova in località Montelabate.
Le ultime foto del polittico sono di Luca Borgia, che il team ringrazia per la sua preziosa collaborazione.
Le ultime foto del polittico sono di Luca Borgia, che il team ringrazia per la sua preziosa collaborazione.
Cenni Storici
Ci troviamo di fronte ad una delle più stupefacenti architetture religiose medioevali del nostro territorio, ad una chiesa-fortezza posta a presidio della Cristianità lungo l’arco che dalla Proenza s’incurva sulla dorsale dell’Appennino.
Incerta è la data di fondazione di queste Abbazie Benedettine, però sono stati ritrovati dei documenti che ne parlano fin dalla seconda metà del X secolo.
Nei documenti più antichi il monastero è chiamato Santa Maria in Valdiponte in Corbiniano dal monte omonimo che la sovrasta a est.
Anche se la prima notizia che ne attesta l’esistenza risale al 969, il primo documento per una datazione sicura del complesso è un antico atto notarile del 993; con esso un tale Giovanni Gregorio cede agli abati e ai monaci un terreno compreso tra il Tevere e il Rio d’Arno; questo cenobio costituì uno dei principali insediamenti benedettini di tipo agrario nel territorio di Perugia e l’atto stesso è anche il più antico documento conservato presso l’Archivio di Stato di Perugia.
È tuttavia probabile che il cenobio possa risalire al IX secolo.
A partire dalla fine del secolo X era sottoposta al vescovo di Perugia Andrea (1033-1048), che vi esercitò la sua giurisdizione, anche se gli abati godevano di ampi poteri e di una larga autonomia sul territorio a loro sottoposto che consisteva in un immenso patrimonio.
L’atto ufficiale più antico relativo al monastero è il privilegio emesso da papa Giovanni XIII nel 969, con il quale confermava all’abate Pietro i beni e i privilegi del cenobio e lo incaricava di restaurare e riformare la comunità secondo la Regola benedettina.
L’insediamento dei Benedettini, in queste zone avvenne nel periodo più oscuro del Medioevo.
Questi monaci, fedeli alla regola “Ora et labora“, oltre a pregare recuperavano i terreni abbandonati dopo la caduta dell’Impero romano, accogliendo tutte quelle persone che accettavano di lavorare la terra in cambio di protezione.
A chi voleva lavorare con loro, i monaci assegnavano dei terreni da coltivare, con contratti detti “enfiteutici” o “di livello” per i quali i lavoratori dovevano dare dei beni in natura al monastero quali: uova in occasione della Pasqua, una spalla di maiale per la festa dell’Assunzione e quattro capi di pollame per Natale.
Questi tributi venivano poi, ridistribuiti tra i più poveri; infatti ai monaci, le regole, impedivano di vivere del lavoro altrui e di mangiare carne.
Questo trattamento dei contadini segna una svolta nella storia, infatti per la prima volta si riconosce il valore umano del lavoratore e non è più trattato come un servo o peggio uno schiavo come invece era costume fino ad allora.
Nel 1030, essendo in questo monastero venute meno la disciplina e l’ordine, il papa Giovanni XIX decise di mandarvi un suo delegato per ripristinare i principi dell’ordine monacale.
L’abate di nome Pietro restaurò anche le chiese, grazie alle donazioni effettuate in quel tempo all’abbazia, che nel 1111 aveva possedimenti vastissimi, questo fu il primo intervento di restauro del complesso.
L’autonomia dal vescovo perugino permise all’abbazia di raggiungere la massima espansione del proprio patrimonio fondiario che, nei secoli XI e XII, arrivò ad estendersi ad ovest fino al lago Trasimeno, a sud fino al territorio perugino, ad est fino alla diocesi di Gubbio e a nord fino all’attuale Umbertide; in questo periodo, il monastero possedeva più di 20 castelli e gestiva più di 30 parrocchie.
Il secolo XIII corrisponde al periodo di maggior splendore dell’abbazia di Valdiponte; la prosperità di cui godeva il monastero era tale che, nel 1277, l’abate Trasmondo (1266-1285) fu sollecitato dal Comune di Perugia a contribuire alla costruzione dell’acquedotto e della Fontana Maggiore.
Interventi di restauro e di ampliamento risalgono al 1230, allorché l’abate Oratore fece ricostruire il chiosco, demolito forse ad opera dei Saraceni che, in quel periodo, fecero scorrerie nel contado; l’attribuzione a questo abate è confermata da un’iscrizione sul capitello di una colonna:
ISTIUS 0RATOR OPERIS FUIT EDIT [. .. ] SUPPLICUS.
Nel 1269 l’abate Trasmondo riedificò la chiesa abbaziale e fece affrescare la sala del Capitolo; a seguito di tali organici processi di ristrutturazione l’insediamento assunse il suo carattere monumentale con l’ultimazione del campanile (1296) e della chiesa; sull’altare maggiore trovò così allocazione un magnifico polittico di Meo di Siena, datato 1285 e ora conservato nella Galleria Nazionale dell’Umbria assieme ad altre importanti testimonianze pittoriche da qui provenienti.
Nel 1297, l’abate Deodato (1286-1302) fece costruire la loggia superiore del chiostro; nel 1315, l’abate Uguccione Monalducci (1302-1338) completò la decorazione della facciata con il rosone e il portale realizzati nel 1315; la sua opera è ricordata da due lapidi, una è posta sulla facciata:
SUB ANNO DOMINI MCCCXV HAEC OMNIA FACTA SUNT A VENERABILI VIRO DOMINO UGUTTIONE ABBATE DIGNISSIMO.
L’altra è collocata su uno dei pilastri: ANNO DOMINI MCCCXVIII HOC FIERI FECIT OPUS VENERABILIS ABBAS UGUTTIONUS.
A questi apparati scultorei lavorò la bottega di un lapicida attivo in questi anni proprio ad Assisi, al portale della basilica inferiore, detto “Maestro ricamatore” per la spiccata propensione alla ricchezza decorativa, come si vede anche nei fregi fogliacei ai lati del portale della chiesa abbaziale.
Le chiese parrocchiali dipendenti erano trenta, ognuna retta da un monaco eletto dall’abate, senza alcuna dipendenza dai vescovi che tuttavia, avevano ingerenze sugli affari temporali dei monaci i quali a loro volta, per difendersi, ricorrevano alla Santa Sede, da cui dipendevano direttamente.
L’abate di Valdiponte se esercitava tutti i diritti e i poteri di un vescovo compiva anche la Sacra visita pastorale alle parrocchie soggette al monastero; nominava e rimuoveva i monaci parroci, conferiva l’Ordine sacro del diaconato; soltanto le ordinazioni sacerdotali e la consacrazione degli oli erano riservati ai vescovi di Perugia e Gubbio.
Soggetta a un progressivo decadimento istituzionale e materiale a causa, oltre che dei contrasti interni, dalle lotte contro le vicine signorie locali e degli attriti con i centri religiosi confinanti (al punto che l’abate Giacomo nel 1404 morì fuori dal monastero privo di tutto), l’abbazia entrò in regime di commenda.
Durante la forte epidemia di peste che sconvolse Perugia nel 1522 e che fece un numero imprecisato di morti, la collettività di Valdiponte decise di ricorrere all’intercessione di Santi Taumaturghi contro il morbo quindi nel 1488 vennero finanziati dalla collettività due altari frontali per la protezione contro la peste.
I due grandi affreschi quattrocenteschi eseguiti sugli altari laterali sono attribuiti a Fiorenzo di Lorenzo e alla sua scuola.
Dal 1527 al 1651, titolari della commenda di Santa Maria di Valdiponte furono i membri della famiglia Cesi di Todi.
Intorno alla metà del Seicento, dopo la morte dell’ultimo monaco, don Pompeo Berardi, l’abbazia fu secolarizzata.
Solo nel 1749, per volontà dell’abate commendatario, il cardinale Filippo Monti, fu reintrodotta la regola monastica e l’abbazia fu affidata ai Cistercensi, che si adoperarono per recuperare i beni e i diritti del loro monastero.
I monaci la trovarono in gravi condizioni di abbandono, con la chiesa adibita a granaio e resa accessibile alle bestie da soma grazie alla modifica dello scalone di accesso antistante la facciata.
Questi vi rimasero fino al 1860 ed è a questo periodo risale la denominazione di Montelabate, con la quale l’abbazia di Valdiponte è spesso indicata.
Durante l’occupazione napoleonica, dal 1808 al 1815, anche l’abbazia di Valdiponte fu soppressa e i suoi beni furono espropriati.
Dopo il ritorno dei monaci nel 1815, la definitiva chiusura avvenne nel 1860 con l’allontanamento dell’ultimo abate regolare, don Alberico Amatori, che fu anche l’autore delle prime memorie storiche dell’abbazia.
Dopo la soppressione, il ricchissimo archivio monastico fu accolto nella Biblioteca del Comune di Perugia, prima di confluire nell’Archivio di Stato di Perugia che, dal 1947, ha sede nell’antico convento di San Domenico; le opere d’arte furono invece sistemate in quella che oggi è la Galleria nazionale dell’Umbria a Perugia.
Il complesso monastico e tutte le vaste proprietà terriere furono indemaniati e, nel 1876, furono venduti allo svizzero Frédéric Perret che vi realizzò una fattoria; ben presto la tenuta fu lasciata in stato di completo abbandono.
Durante la seconda guerra mondiale gli edifici furono usati come deposito per le opere d’arte della Galleria nazionale dell’Umbria, di alcune opere delle Pinacoteca di Brera e per le collezioni librarie più preziose della Biblioteca comunale di Perugia.
Nel 1956, l’abbazia fu acquistata dal senatore Gerolamo Gaslini e oggi appartiene alla Fondazione Gaslini di Genova.
Interno
Per quello che riguarda la storia artistica dell’Abbazia, occorre dire che, nel corso di secoli, si sono susseguiti diversi mutamenti sia sulla struttura architettonica che nelle opere di abbellimento dell’interno.
La cripta, la parte più antica del complesso, risale al IX secolo.
L’abbazia, già verso il 1300, aveva raggiunto la forma e le dimensioni attuali; sul lato nord la grande chiesa (che serviva a riparare il cenobio dai freddi e dalla tramontana gelida), a est i dormitori e il refettorio, ad ovest scriptorium e la biblioteca, a sud la foresteria con l’infermeria.
Il grande chiostro che collega tutte le parti del monastero è costituito da due logge sovrapposte, realizzate con colonnine tra loro differenti (proprio per la logica benedettina del recupero di qualsiasi materiale).
La chiesa, dedicata a S. Maria, è di stile romanico – gotico, ed unica navata, con volte a crociera poggianti su costoloni sorretti da semi pilastri addossati alle pareti.
Al 1315 risalgono il rosone della facciata e il nuovo portale voluti dall’abate Uguccione Monalducci assieme alle potenti paraste che tuttora la contraddistinguono, mentre i contrafforti risalgono al 1568.
Le sue misure interne sono rispettivamente di 30 m. di lunghezza per 15 m. di larghezza.
Al di sotto si trova la cripta divisa in quattro navatelle di due campate ciascuna tutte coperte
da volte a crociera separate da archi intradossali con tre absidi coperte da semicalotte; gli elementi utilizzati per la sua costruzione sono tutti materiali di spoglio, come colonne romane e altomedievali i cui capitelli sono ornati con motivi vegetali.
Le volte della cripta sono prive di nervature ed eseguite prevalentemente in pietrame.
A fianco della cripta si trova un grande ambiente che in origine poteva trattarsi dell’antica chiesa claustrale dei monaci, poi trasformata in magazzino del cenobio e in epoche successive in cantina.
Questo ambiente si nota oggi con la volta e le pareti completamente affumicato per il semplice motivo che durante la vendemmia, per favorire la fermentazione del mosto si aumentava la temperatura interna del locale accendendo fuochi che riscaldavano l’ambiente.
La facciata ha un grande portale, sormontati da un rosone.
Ancora oggi nella chiesa sono presenti due grandi affreschi che sovrastano gli altari posti vicino al portale d’ingresso su quello di sinistra è raffigurata la Vergine in trono con il Bambino affiancata da Sant’Antonio abate e San Bernardino da Siena e sotto la comunità di uomini e donne genuflessa, in preghiera con San Sebastiano e San Rocco Santi taumaturghi contro la peste.
Sotto il Timpano con Dio benedicente si notano due tondi contrapposti con un’Annunciazione.
L’arco e le relative spalle di questo sono decorati con tondi raffiguranti Profeti.
L’affresco di destra rappresenta una Crocifissione tra la Madonna e San Giovanni, sotto San Sebastiano e San Rocco protettori contro la peste; nel timpano Cristo risorto dove con una rara immagine viene rappresentato con entrambe i piedi fuori dal sepolcro quasi a significare la sua figura esclusivamente divina, a differenza di tutte le altre che mantenendo un piede ancora dentro il sarcofago sottolineavano la sua doppia natura umana e divina.
Nella spalla dell’arco a sinistra Sant’Antonio abate e a destra San Bernardino da Siena.
Nei due tondi sotto il timpano a sinistra San Biagio e a destra San Cristoforo.
L’opera è attribuita alla scuola di Fiorenzo di Lorenzo (1492).
Nella sala del Capitolo, utilizzata per le riunioni dei monaci, oltre alla Crocifissione attribuita a Meo da Siena, c’è un altro dipinto, presumibilmente dello stesso autore, raffigurante la Vergine in trono con bambino ai cui piedi è raffigurato l’abate Trasmondo.
A fianco c’è un altro dipinto in cui è effigiato S. Benedetto che ha in mano il libro della Regola monastica.
Nella stessa stanza sono state poste tele, di epoche successive, raffiguranti una Madonna della misericordia e una allegoria della castità.
La sala del Capitolo
La sala del capitolo dei monaci, posta nell’angolo Est fra chiostro e cripta, era il luogo i cui l’abate riuniva i rappresentanti della comunità monastica per affrontare questioni importanti riguardanti la vita dell’abbazia.
Sappiamo ad esempio che nel dicembre 1326 l’abate Uguccione I convocò un capitolo al quale erano presenti, oltre a lui, il priore claustrale Guido, il sacrista Paolo, il camerario Benedetto (detti officiales dicti monasterii), e sei monaci.
L’ambiente preserva ancora importanti affreschi realizzati attorno al 1285, purtroppo in parte danneggiati dalla realizzazione, forse nel XVIII secolo, di una volta a crociera per rinforzare il pavimento del piano superiore.
Sulla parete di fondo da sinistra a destra si vedono:
San Benedetto; la Vergine col Bambino e in basso inginocchiato l’abate committente (Trasmondo, morto nel 1285, o il suo successore Deodato); la Crocifissione con la Vergine e San Giovanni.
Il pittore, fra i protagonisti della pittura perugina di fine Duecento, prende il nome di “Maestro di Montelabate“; il Cristo crocifisso, del tipo detto “Patiens“, ovvero sofferente, e l’atteggiamento contenuto dei dolenti rimandano alla conoscenza dell’attività di Cimabue.
Al pittore sono attribuiti alcuni altri dipinti, fra questi due crocifissi lignei conservati al Philadelphia Museum of Art e alla Galleria Nazionale dell’Umbria, quest’ultimo di minor qualità.
Le pareti della sala sono invece decorate con un motivo floreale presente nel Trecento in diversi edifici perugini.
Il capitello e la colonnina della piccola bifora verso il chiostro sono di riutilizzo, e appartengono alla fase più antica del monastero.
La Cripta
La cripta è la parte più antica dell’attuale struttura abbaziale.
Risale probabilmente alla prima metà dell’XI secolo ed era accessibile dalla navata della chiesa scendendo qualche gradino, oltre che dal chiostro.
La datazione si basa sul tipo di muratura, molto regolare, con sott’archi di rinforzo della volta e con l’elegante motivo dei mattoni alternali alla pietra nelle ghiere degli archi che deriva da modelli ravennati.
La piccola finestra monofora che si apre sul lato rettilineo della cripta affacciava verso la navata.
La chiesa esistente in questa fase di XI secolo doveva essere di dimensioni più modeste dell’attuale e del tipo a tre navate, visto che dietro la cripta è ancora visibile il muro esterno con l’abside principale e una delle due minori che chiudevano l’edificio.
II presbiterio sorgeva rialzato proprio sopra la cripta, e vi si accedeva dalla navata salendo una gradinata.
Quando si decise di costruire la nuova e più grande chiesa, nella seconda meta del XIII secolo, fu abbattuta la navata del vecchio edificio e per sorreggere la nuova possente struttura si costruì la sala con volte a crociera e grande pilastro centrale, confinante con la cripta stessa.
Quell’ambiente fu forse utilizzato anche come “chiesa inferiore” (l’espressione si trova nei documenti dell’abbazia), servì poi come magazzino e in tempi più recenti fu adibito a cantina.
La cripta fu lasciata sotto il nuovo edificio gotico per devozione ma anche perché sorreggeva parte del presbiterio, che rispetto a quello antico fu allungato di alcuni metri.
Subito a destra dell’ingresso della cripta, in una nicchia sulla parete, restano alcuni frammenti di un affresco di inizio Trecento, che raffigurava probabilmente la Vergine con il Bambino.
Si vede ancora inginocchiato a sinistra l’abate committente, forse Uguccione I (1302-1338).
Nota di curiosità dell’affresco
Una nota curiosa dell’affresco dell’altare di sinistra della chiesa è che nella parte inferiore sono rappresentate le due comunità maschili e femminili divise che con facce molto tese e preoccupate chiedono l’intercessione dei Santi contro la peste; solo però due figure però hanno facce sorridenti, sono la terza donna in alto da sinistra e il secondo uomo da destra nella fila in basso; i due si guardano e si sorridono perché forse sono innamorati e per loro la peste passa in secondo piano, infatti il desiderio supera la paura della morte.
Altra nota curiosa
La pergamena testamentaria originale del 993 è conservata presso l’Archivio di Stato di Perugia, ma una copia è esposta all’ingresso interno del chiostro e la nota curiosa che si può osservare è che in un primo tempo il notaio che redige l’atto fa firmare in calce tutti i testimoni e qualcuno di loro appone una croce perché è analfabeta e accanto a questa è lo stesso notaio che aggiunge il nome e cognome (infatti la calligrafia per questi è la stessa di chi redige l’atto), inoltre quando chi redige scrive tutte le notizie necessarie alla descrizione precisa dell’atto nella parte superiore, si accorge che lo spazio che ha lasciato non è sufficiente, per cui è costretto a restringere sensibilmente gli spazi e a rimpicciolire di molto la scrittura.
La vita dei monaci
Il monaco benedettino vive secondo le regole, è un uomo dedito a Dio; trascorre la vita nella preghiera, diurna e notturna, dorme poco, giacendo, vestito e calzato, sopra una stuoia o un pagliericcio, legge solo libri ricevuti dall’abate e vive in assoluta dipendenza ed obbedienza; si procura il vitto con il suo lavoro, esce dal monastero solo per cause urgenti che riguardano la comunità.
Il suo vitto è costituito da focacce; erbe dell’orto e legumi del campo, cacio, pesce e uova.
Non usa condimenti e solo per gli ospiti e per gli infermi acquista carne.
Nella visita che un Baglioni fece al monastero, nel 1267, gli fu servita soltanto una pietanza di pesce.
L’abbazia di Montelabate è sorta per rendere attuabile ciò che il motto delle regole impone “Ora et labora” e l’esempio dato dai benedettini fa sì che il periodo oscuro che, attraversa la chiesa venga superato.
Nota di ringraziamento
Le foto delle opere prelevate ed esposte nella Galleria Nazionale dell’Umbria sono di Luca Borgia che ringrazio.
Fonti documentative
G. Farnedi N. Togni – Monasteri Benedettini in Umbria; alle radici del paesaggio Umbro – 2014
F. Guarino A. Melelli – Abbazie benedettine in Umbria – 2008
Pietro Matracchi, Chiara Belligi, Eleonora Dottorini, Margherita Macchiarini – L’abbazia benedettina di Santa Maria di Valdiponte a Montelabate in Umbria. Per un’archeologia dei cantieri
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