Casa di Terra Sforza – Cupramontana (AN)

Cenni Storici

Casa di Terra Sforza – Cupramontana (AN)

La casa di terra è un modulo abitativo primordiale ancora in uso in molte etnie contemporanee. Un aspetto del patrimonio diffuso e del paesaggio agrario ancora presente nella nostra regione, e a tutti gli effetti degno di essere salvaguardato. Esistono ancora significativi esempi, molti dei quali censiti e studiati, altri meno noti, come quello di Spinetoli, recuperato di recente. La casa di terra, che si chiamava “atterrato”, cioè agglomerato di terra, indicava la casa fatta di fango impastato per lo più con ciottoli di fiume e paglia, diffusa non solo nelle campagne ma anche all’interno degli abitati. Il termine “atterrato” si trova già documentato nella “Canzone del Castra” (composizione marchigiana in volgare della metà del 1200, che offre uno spaccato a tutto tondo di vita rurale quotidiana medievale, e testimonia come spesso nei dialetti locali si siano conservati termini o modi di dire antichissimi) e permane nella terminologia fino a tutto il XIX secolo, visto che tale modello abitativo è stato impiegato fino a periodi piuttosto recenti.

L’atterrato era una casa semplice, essenziale, costituita da pochissimi vani, che si sviluppava in altezza con al massimo due piani, più la copertura, generata dalla conoscenza quasi innata di una “tecnica antica”, come la definisce Gianni Volpe, diffusa in tutto l’arco del Mediterraneo.

Proprio la sua semplicità, il facile reperimento della materia prima senza costi, ne fece un solido modello abitativo, valido sostituto delle meno salubri “pagliare”, le case fatte di paglia, delle fasce rurali più povere e nullatenenti, come i mezzadri, gli scozzatori (dissodatori), i braccianti, i casanolanti, spesso Albanesi, Slavi o “Sclavones”, che si cimentavano nella costruzione aiutati dall’intera famiglia e dal vicinato.

Sul finire dell’Ottocento fioriscono, in alcuni casi, veri e propri villaggi di piccole abitazioni terrose vicino a strade e fiumi, a mulini e fornaci, ovvero vicino ai posti di lavoro, come nel caso del superstite borgo di Villa Ficana, vicino Macerata. Era necessario individuare un luogo stabile dove edificare, perché queste case non avevano fondamenta, anzi, il battuto di terra ne costituiva la pavimentazione.

La terra impiegata, veniva resa plastica attraverso l’aggiunta di acqua versata nelle pozze adiacenti e impastata coi piedi o battuta con pertiche snodate, quindi, si poteva aggiungere del “degrassante” come la cenere. Poi si immetteva il materiale inerte, ovvero quegli elementi che servivano a rendere solidale la terra, che potevano essere erba secca sminuzzata, paglia, sterco, pietrisco.

A questo punto si poteva procedere in diverse maniere: formando dei blocchi compattati e sovrapponendoli a fresco, oppure utilizzando delle cassaforme di legno mobili collocate in sito, dentro le quali comprimere la malta, o ancora più semplicemente, plasmando a mano la terra direttamente sulle pareti, normalmente larghe non meno di un metro. In elevato, si procedeva a più riprese, lasciando prima asciugare la parte già realizzata. Giunti al primo piano, si metteva in opera la travatura per il pavimento fatto di tavole e di seguito si arrivava al tetto, realizzato con graticcio di canne poggiato sulle travi, su cui si stendeva di solito un impasto di terra e paglia, sopra il quale si collocavano le tegole.

Le parti più esposte all’azione erosiva dei venti e delle piogge, infine, venivano possibilmente scialbate con la calce. Dunque, un modello che viene considerato, alla luce delle moderne concezioni bio-architettoniche come ecologicamente corretto, in cui entravano in gioco i mille saperi e quelle conoscenze pratiche che successivamente porteranno una componente del ceto agricolo all’attività artigianale.

Quando, nel corso della prima metà del Novecento, decine e decine di migliaia di marchigiani affideranno la sorte di un destino misero alla possibilità del riscatto americano, le case di terra cominciano a diventare il simbolo imbarazzante di una vita umiliante, e quindi abbandonate al loro destino. Molte vengono abbattute, altre camuffate con intonaci e mattoni o, nei casi più fortunati, relegate a capanne per gli attrezzi.

Esaurita questa fase di rimozione culturale, le case di terra superstiti, insieme a tutta la componente della cultura materiale contadina, cominciano ad essere oggetto di studio e riacquistano la loro dignità di testimonianza storica e sociale, esempio di architettura popolare al pari delle altre architetture e delle testimonianze di archeologia industriale.

Dagli Anni ’80 del 1900, grazie a un gruppo di studiosi come Sergio Anselmi, Ercole Sori, Gianni Volpe, Augusta Palombarini, per citarne solo alcuni, partì uno studio metodico e approfondito a livello regionale che permise di documentare il patrimonio superstite degli atterrati, e di proporlo in convegni, conferenze e pubblicazioni.

Questa sensibilizzazione ha permesso, in molti casi grazie anche alle Amministrazioni territoriali, la salvaguardia e il recupero di queste testimonianze architettoniche, ancora presenti ad Arcevia, Treia, Ostra Vetere, Corridonia, Montegranaro, Cossignano, Ripaberarda, Spinetoli.

Germano Vitelli
 

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