Castello (Eremo) di Saltareccio – Lapedona (FM)

Cenni Storici

Il castello di Saltareccio rappresenta una delle più antiche testimonianze di un tipico insediamento monastico altomedievale della Marca fermana. E’ documentato, infatti, fin dal 1028 quando Transarico del fu Vallente, signore di stirpe longobarda, lo dona, per la sua parte, al vescovo di Fermo; la donazione sarà completata nel 1055 con la cessione delle parti spettanti alla moglie Amata e al figlio omonimo Transarico. Con il castello passava al vescovo anche tutta la proprietà terriera di pertinenza che giungeva al fiume Aso (boschi di querce, terra arativa, vigne, olivi) e comprendeva anche il mulino posto sulle sponde dello stesso fiume. Il castello, come risulta dagli atti, era fortificato ed aveva al suo interno la chiesa di Santa Maria con la campana, gli arredi sacri, i libri canonici e le abitazioni (celle) dei monaci. Presumibilmente all’interno del castello risiedevano anche i coltivatori ma le loro abitazioni non sono oggetto della donazione in quanto, è da supporre, di proprietà degli stessi. Non sappiamo in quale epoca fosse stato edificato il castrum saltaricii, probabilmente nell’VIII-IX secolo quando i monaci benedettini facenti capo alle abbazie di Montecassino, Farfa, S. Pietro in Ferentillo e Fonte Avellana ebbero in assegnazione vasti territori nelle Marche meridionali dal duca di Spoleto e da quello di Fermo. Neppure sappiamo quando esso passò in mano privata, certamente prima del Mille dal momento che Transarico dichiara di averlo avuto in eredità dal padre Vallente. Con la formazione del castello di Lapedona i monaci e gli abitanti di Saltareccio si trasferirono nel nuovo incasato dove edificarono una nuova chiesa sempre dedicata a Santa Maria restando proprietari del vecchio castello e delle terre di sua pertinenza. Dal XIII al XVII secolo la chiesa in paese e le proprietà di Saltareccio furono in godimento dei monaci agostiniani, mentre nel XVI secolo una piccola comunità di frati minori francescani, probabilmente dipendenti dal convento di Fermo, tornò a vivere a Saltareccio mantenuti a spese del comune. In età napoleonica il castello con la restante proprietà terriera venne alienato ed acquistato da Domenico Ranaldi, medico maceratese e professore del Liceo del Tronto a Fermo. Nel corso dei secoli l’edificio ha subito numerosi interventi che ne hanno modificato in maniera sostanziale l’aspetto originario. Il catasto rustico del 1674 lo individua come “casa” al pari delle altre abitazioni coloniche. Passato in mano privata venne ristrutturato e adattato a casa di villeggiatura (casino) con annessa cappella e casa colonica. Il castello sorge su una collina boscosa (“saltaricia”) in vista del mare, che dista circa 5 km., sul versante sinistro del fosso San Biagio tra il colle di Monte Pregnano e quello di Monte Maggio che sovrasta la valle dell’Aso. E’ in posizione chiaramente strategica lungo il percorso che fin dall’età romana collegava Fermo con Cupramarittima. E’ a distanza canonica da altri luoghi di riparo o di posta (Mulino e guado dell’Aso a sud, castello di S. Martino a nord) e dispone di numerose sorgenti d’acqua. Di particolare interesse è il contesto naturalistico in cui il castello è inserito e che deve essere rimasto immutato fin dall’antichità quando gli fu attribuito il nome derivato dal latino saltus (bosco). Una fitta vegetazione, infatti, circonda il luogo che si collega con il vasto bosco di roverella (detto “Selva di Ranaldi”) che ricopre il versante nord di Monte Maggio per una estensione, da est ad ovest, di oltre due chilometri. Numerosi esemplari di querce secolari sorgono intorno al castello e lungo la strada antistante mentre nella selva sono presenti le principali specie arboree e floristiche tipiche della macchia mediterranea (pino, alloro, acero, ginepro, ginestra, agrifoglio, pungitopo, ecc.). In prossimità delle sorgenti e lungo il corso dei fossi si è sviluppata la vegetazione tipica dei luoghi umidi e ripariali con pioppi, olmi, ontani, salici, felci, ecc. L’intera zona rappresenta l’habitat ideale per molte specie animali sia stanziali che migratorie: volpi, tassi, scoiattoli, lepri, fagiani, gallinelle d’acqua, poiane, gruccioni, upupe, granchi d’acqua dolce, ecc. Il luogo, pur a breve distanza da molti centri urbani collinari e costieri, appare come un’oasi di pace e tranquillità che la memoria storica arricchisce di fascino e suggestioni. Appartenendo a pieno titolo al patrimonio culturale regionale appare non solo opportuno ma doveroso un intervento di salvaguardia e di recupero che lo restituisca alla fruizione pubblica.

Luigi Rossi

Per approfondimenti maggiori: www.comunedilapedona.it

 

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