Convento di Santa Croce – Sterpare di Sellano (PG)

Del convento rimangono labili tracce di brandelli di muro immersi nel bosco.

 

Cenni storici

Nelle aree sommitali più lontane dalle grandi arterie viarie e dai tratturi tradizionali del territorio Sellanese sorsero spontaneamente degli agglomerati urbani costituiti da popolazioni dedite alla pastorizia, all’agricoltura ed allo sfruttamento del bosco; questi insediamenti ebbero la caratteristica non di nuclei compatti, ma di casa sparse che nel corso dei secoli non ebbero mai la necessità di fortificazione e restarono pertanto delle “Ville“, ricordiamo quindi in quest’area oltre a Sterpare anche Apagni e Fonni.
Sterpare, il nome stesso è indicativo della qualità del territorio, costituito da “sterpi” che poco rendeva alla sopravvivenza, viene ricordato per la scarsa produttività e per la miseria a cui erano sottoposti gli abitanti.
A cambiare le condizioni di vita di queste persone sopraggiunsero i monaci benedettini che con il loro sapere e la loro cultura cambiarono radicalmente le condizioni di vita di questa popolazione.
Nel territorio sellanese i benedettini si insediarono in epoca imprecisata e costruirono i monasteri di San Nicola di Acqua Premuta, San Pietro in Tutorio e Santa Croce di Sterpare.
Quest’ultimo forse in origine dipendeva dall’Abbazia benedettina di Sant’Eutizio ed alcuni monaci di origine toscana, secondo la storia, insegnarono agli abitanti del posto, la lavorazione del ferro e la tempera delle lime e delle raspe, al fine di dare un minimo di reddito a quella popolazione che era sopraffatta dalla miseria e dall’indigenza.
La leggenda narra anche che i frati successivamente però si pentirono, temendo che dopo aver imparato il mestiere, i sellanesi si allontanassero dalla fede e dai buoni costumi, per cui maledissero chi, attraverso tale lavoro, guadagnasse più del necessario per vivere.
La documentazione giunta fino a noi è abbondante a partire dal Settecento, ma alcuni indizi consentono forse di risalire ad una data più alta.
Nella documentazione della chiesa di Santa Maria Maggiore di Spello si trova citato, a partire dal 1519, un mastro Petruccio di Ranaldo da Sellano, fabbro (realizzava in particolare chiavi e serrature), traccia forse di una tradizione
artigianale locale.
Nel 1585 un notaio della montagna folignate redasse l’inventario dei beni di un abitante di Rasiglia e fra i beni elencati compaiono: “una incudine grande, un paro di morse da stregner, un ceppo et un banco da tagliar le lime, una mazza, due martella grande e quatro martelli piccoli. tre para de tenaglie, tre para de stampe da seche co sei taglioli da ferro, quatro raspe da far lime, (…) tre pezzi di ferro da tagliar lime” che fanno ipotizzare una produzione in loco di questi manufatti di metallo.
Il segreto riguardava soprattutto la fase di “cementazione e tempera” che consisteva nell’avvolgere i pezzi con un preparato chimico fatto di fuliggine con aggiunta di sale, polvere di corno e di unghie (senza questo preparati i denti delle raspe e lime fonderebbero ), venivano poi messi in un forno a 850 °, il portello del quale era sigillato con una terra bianca che si rinviene sul posto, impastata con sterco di cavallo.
Una volta arroventati venivano immersi nell’acqua fredda, questo aumentava la durezza del metallo ed evitava la deformazione dei denti.
Successivamente si passava all’insabbiatura per pulire i pezzi dalle scorie bruciate e dare un colore cenerognolo, venivano poi passati nell’olio antiruggine diluito in acqua emulsionante per poi farli asciugare al sole.
Il segreto venne così gelosamente custodito che quando, nel 1778, il maestro limaro Francesco Antonini di Sellano accolse nella sua bottega un giovane milanese, Cristoforo Masina, gli altri artigiani si rivolsero al Camerlengo di Santa Romana Chiesa perché fosse “rimosso dalla sua bottega il giovane suddetto sotto gravissime pene colle proibizioni, in avvenire, a tutti i limari che non abbiano ardire di mai imparare ad esteri simili mestieri“.
La stessa tradizione vuole che i frati, preoccupati che la ricchezza ricavata dall’arte da loro insegnata potesse allontanare dalla fede gli abitanti, per mantenerli devoti ed onesti invocassero la maledizione su coloro che avessero guadagnato più del necessario per vivere.
Un tempo nella zona si svolgeva l’intero ciclo di produzione: dall’estrazione del ferro nelle miniere di Monte Birbone, ad una prima lavorazione nelle Ferriere di Monteleone, chiuse dopo il disastroso terremoto del 1703, alla forgiatura e produzione degli utensili nel sellanese.
Dopo questa data il ferro fu fatto arrivare da Brescia da Trieste, “per esser l’unico che riesca nella manifattura“.
La produzione è attualmente limitata alle sole raspe con processo di lavorazione rimasto sostanzialmente inalterato nel tempo.
Le barrette di ferro dolce, riscaldate alla forgia alimentata da carbone vegetale, vengono sagomate nella dimensione e nella forma voluta.
La successiva “arricciatura“, realizzata con uno scalpello di acciaio, richiede una particolare abilità; viene eseguita su un deschetto ricavato da un tronco d’albero su cui viene infisso un blocco di piombo (ora di alluminio) rivestito di cuoio per appoggiare le raspe senza rovinare i denti già formati quando si lavora l’altra faccia.
La lavorazione manuale distribuisce in modo irregolare le punte sulla superficie delle raspe, e questo costituisce il maggior pregio dell’utensile, perché garantisce una perfetta levigatura dei materiali, rispetto alle raspe prodotte meccanicamente che, presentando tutte le cuspidi disposte in fila, lasciano i segni dell’abrasione.
Queste popolazioni, istruite dai benedettini, sono dedite da secoli alla lavorazione delle raspe e delle lime, la zona del sellanese è da tempo infatti rinomata per tale produzione, fatte a mano con un sistema di lavorazione che si tramanda da secoli.
Quest’attività è documentata fin dal Settecento ed impegnava gran parte degli abitanti delle frazioni di Villamagina, Casale, Ottaggi e S. Martino e delle aree circostanti.
Il deschetto di legno utilizzato per l’intaglio (“la picchettatura“) delle lime e delle raspe era presente in tutte le case.
La fama dei manufatti del sellanese aveva nel Settecento superato i confini nazionali e nella metà dell’Ottocento si contavano nella zona una ventina di imprese artigiane con una produzione di oltre 12.000 dozzine di lime e raspe e circa 24.000 dozzine di altri mezzi metallici per lavori agricoli.
Le esportazioni dei manufatti si spingevano verso la Toscana, il Genovese, la Lombardia, il Veneto e il Levante, oltre che, attraverso la importante Fiera di Senigallia, in altri luoghi (si parla perfino dell’Inghilterra).
Sul finire del 1788 il Corpo dei limari di Sellano si era rivolto alla Sacra Congregazione del Buon Governo per migliorare la viabilità nel tratto che conduceva da Casenove di Foligno fino a Sellano, in modo che si potesse percorrerla con dei carri e non solo “a schiena di cavallo“.
La questione fu sottoposta al governatore e al consiglio della città di Foligno (che approvò).
Le difficili condizioni di lavoro e l’agguerrita concorrenza del mercato internazionale hanno provocato la crisi di questa attività.
Nel 1954 è stata fondata la Società Cooperativa Artigiana di Villamagina che attualmente conta 11 soci ed impegna 19 dipendenti.
La produzione media è di 900.000 pezzi all’anno destinata per oltre il 30% al mercato estero.
La Cooperativa è rimasta l’unica impresa italiana ad operare in questo campo e produce raspe tonde, piane, birolere e raspe speciali per ebanisti, mobilieri, scultori, calzolai, vetrai, maniscalchi, lavagnari.
Per tornare alla storia del monastero i documenti attestano che, nel corso dei secoli, al convento di Santa Croce di Sterpare ai benedettini si alternarono gli ordini mendicanti, in particolare francescani (L. Bertoglio), e ciò pare sia avvalorato dal fatto che i monaci di Santa Croce officiavano la chiesa di Santa Maria della Croce o San Francesco di Sellano dedicata al Santo di Assisi in onore ai monaci francescani.
Da questo monastero proviene un Crocifisso quattrocentesco ora conservato in una teca della chiesa di San Silvestro di Villamagina.
Il Crocifisso sagomato, è dipinto da un ritardatario pittore della Valnerina del Quattrocento, secondo l’antico profilo bizantino.
La croce oltre alle tabelle laterali con le figure di S. Giovanni e dell’Addolorata, in conversazione più che in posa di dolore, ha le tabelle rettangolari anche agli estremi dei bracci, di cui quella in alto presenta l’Eterno, dall’espressione ingenua, benedicente alla greca.
Il Cristo ha occhi aperti e stupefatti in un volto inespressivo tra i numerosi capelli che scendono ai lati.
Il corpo è eretto e più che appeso è riposante sui tre chiodi (i piedi sono sovrapposti).
Anche le pieghe del perizona sono ancora gotiche e di gusto popolare.
Per lo stile di espressioni timide, si avvicina agli altri crocifissi di Caso e di Ferentillo, ma l’opera popolaresca risente anche dell’ingenuità di opere marchigiane come quelle di Antonio da Fabriano.
 

Aspetto

Il convento era situato a valle dell’abitato di Sterpare, lungo il versante che conduce al fosso di Fonni in una posizione decentrata rispetto all’antico percorso che da Sterpare conduceva a Montalbo e forse a Postignano.
Dopo l’abbandono dei monaci forse con la soppressione degli ordini o forse più tardi, il monastero è andato in rovina ed ora non rimane che qualche traccia delle mura perimetrali e un ambiente voltato semicrollato che faceva parte di una cappella laterale o un ambiente ecclesiastico (Sacrestia) sul fianco sinistro della chiesa.
 
 
 

Fonte monacesca

Così chiamata perché era ad uso di monaci, infatti l’approvvigionamento idrico del convento era garantito da una fonte di acqua sorgiva che sgorgava a poche decine di metri dalla struttura monastica lungo il pendio del fosso ad un’altitudine di 740 m slm.
I Frati scendevano lungo un percorso pedonale con le brocche e si rifornivano di acqua necessaria per il loro sostentamento; forse è ipotizzabile che all’interno delle mura sia stata presenta anche una qualche forma di raccolta di acqua piovana per uso animale o non alimentare.
La fonte presenta una vasca scavata nella roccia protetta da una volta in pietra e da un piano di appoggio dove si nota una pietra liscia levigata da sfregamento.
La fonte è stata abbandonata per anni e solo recentemente, grazie all’intervento di un abitante di Sterpare è stata liberata dalla vegetazione e resa visitabile, solo che è semiasciutta per la scarsità di precipitazioni invernali che alimentano la sorgente.
 

Da vedere nella zona

Chiesa di San Sebastiano – Pupaggi
Chiesa di San Giovanni – Apagni
 

Bibliografia

Storia dei Comuni della Valnerina di Don Ansano Fabbi 1976
Forgiata dalle acque: Sellano e il suo territorio – 2017

http://www.sellanoturismo.it/luoghi-dellanima/chiesa-di-san-silvestro-villamagina/

 

Mappa del Convento

Link alle coordinate: N42 52.519 E12 53.963
 

Mappa della Fonte

Link alle coordinate: N42 52.525 E12 53.878

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