Todi sotterranea – Todi (PG)

 

La Fabbrica della Piana

Il colle di Todi è composto da strati incoerenti di sedimenti lacustri riferibili alla zona umida che durante il Pliocene occupava le grandi depressioni tettoniche corrispondenti alla media valle del Tevere e alla valle Umbra, nota con il nome improprio (non si trattò di un unico grande lago) di “Lago Tiberino“.
I sollevamenti tettonici verificatisi alla fine del Pliocene, nel sito dell’attuale Gola del Forello, portarono allo svuotamento del bacino e alla formazione del paleocorso del fiume Tevere.
Proprio il Tevere, assieme ai suoi affluenti, erodendo l’antico deposito lacustre, ha generato la successione di morbide colline che caratterizzano la morfologia attuale del territorio.
La forma all’incirca triangolare del colle è dovuta all’erosione di due modesti fossi che si dipartono dalla sua sommità: il fosso Boccajone o del Mattatoio ad est e quello delle Lucrezie ad ovest.
Sul colle, sotto la città di Todi, è possibile riconoscere quattro unità stratigrafiche, con giacitura pressoché orizzontale: la base del colle è formata da argille azzurre lignitifere dello spessore di circa 120-159 m completamente impermeabili, mentre al di sopra di esse è possibile riconoscere un complesso spesso 60 m di limi argillosi e sabbiosi color giallo ocra che termina in alto con un banco di argille color verde mare dello spessore di 20 m; infine, la zona sommitale, corrispondente grossomodo all’area urbanizzata, è costituita da uno zoccolo più compatto, che presenta una complessa stratigrafia interna di limi, di conglomerati più o meno cementati e, in minor misura, di argille.
La presenza dei livelli argillosi impermeabili limita la circolazione idrica nel sottosuolo, dando luogo a piccole falde sospese, dalle quali l’acqua fatica a raggiungere la superficie.
La più importante di queste falde, quella che provoca i dissesti che affliggono la città di Todi, è generata dall’orizzonte impermeabile delle argille verde mare che, bloccando le acque provenienti dalla sommità, le costringe ad affiorare tutto intono al colle, ad una quota compresa tra i 320 e i 340 m s.l.m., poco al di sotto delle mura della città medioevale.
Questa presenza di argille impermeabili all’acqua è stata la causa di scivolamenti degli strati conglomeratici e sabbiosi provocando frane che hanno messo in serio pericolo la stessa città sin dai primordi della sua edificazione.
La necessità di trovare soluzioni al problema si presentò sin dalla più remota antichità, infatti sin dal II sec. a.C. si sono cominciate a trovare soluzioni che si sono espresse in consolidamenti della cinta muraria.
I romani intuirono il problema della presenza di acqua nel sottosuolo e scavarono pozzi e gallerie sotterranee con la funzione di captare e trasportare quest’acqua fuori dalle viscere della collina.
Nel medioevo e anche in età successive vennero realizzati ampliamenti ed interventi di manutenzione tanto da creare un enorme puzzle sotterraneo di cunicoli e pozzi scavati in epoche diverse e con diverse tecniche costruttive.
Per quanto riguarda le epoche più recenti disponiamo a riguardo di una mole di documentazione davvero imponente che ci testimonia come, almeno negli ultimi sette secoli, i meccanismi del dissesto sono sempre stati uguali.
Nel XVII secolo il sistema drenante smise di funzionare in quanto i cunicoli con il tempo si erano ostruiti sia in maniera naturale, sia per l’intervento dei contadini che avevano considerato il loro utilizzo come una fonte di approvvigionamento di acqua.
Proprio in questo secolo si assistette alla frana che coinvolse la contrada della Valle ed in particolare l’imponente bastione della Porta Orvietana.
Ma la più eclatante frana che si ricorda è quella nella contrada Piana, sul versante opposto del colle, iniziata sin dal 1812 e culminata nell’evento del dicembre 1814, quando in pochi giorni vennero ingoiati un grande tratto delle mura urbane, orti, case, un ospedale per pellegrini, una chiesa e una scuola.
A questo punto venne avviato il grande cantiere che prese il nome di “Fabbrica della Piana” che rimase in attività per quasi un secolo, anche se in maniera discontinua a causa degli scarsi finanziamenti disponibili e dei moti rivoluzionari che portarono all’Unità nazionale.
I non facili interventi di bonifica richiesero cifre strepitose di denaro e occuparono centinaia di persone: muratori, minatori, scalpellini, fabbri, carpentieri, ecc. venuti anche da lontano per lavorare alla grande impresa.
I vari governi che nel corso del tempo si susseguirono (Impero Francese, Governo Provvisorio sotto il Regno di Napoli, Stato Pontificio restaurato, Regno d’Italia) portarono a Todi molti nomi illustri: ingegneri ed architetti famosi sottratti alla costruzione di ricchi palazzi affinché applicassero il loro versatile ingegno a cunicoli e muraglioni, nell’intento di sconfiggere una frana subdola e cattiva che sembrava non volersi fermare mai.
Molti dei lavori effettuati riguardarono il sottosuolo: venne realizzato un sistema di gallerie e di pozzi che dovevano drenare e portare in superficie le pericolose acque sotterranee che costituivano la principale causa degli smottamenti.
Queste gallerie andarono ad intercettare ed in parte sostituire il complesso di cunicoli risalente ad epoca romana, ormai inoperoso, prolungandolo oltre le mura, sotto la campagna, sino ad una distanza sufficiente a scongiurare nuovi danni alla città.
La vastità del fenomeno franoso rese necessari scavi molto profondi, al di sotto delle fondamenta del vecchio muraglione di Clemente XIII, che era stato costruito nel 1762 in seguito ad un altro grave dissesto.
I grandi dislivelli che andavano coperti portarono a soluzioni ingegneristiche molto complesse quali alti pozzi, ripide scalinate, gallerie che salivano a zig-zag su più livelli sovrapposti, ecc.
Questi ultimi sistemi servivano essenzialmente a rallentare la velocità di scorrimento dell’acqua riducendone il potere erosivo.
Verso la fine del secolo l’acqua che defluiva dalle gallerie venne utilizzata per alimentare la nuova Fontana pubblica dei Bottini, che prende il nome dal termine, ormai in disuso, con cui si era soliti indicare i cunicoli.
Il complesso come si presenta oggi, con i suoi 581 metri di sviluppo e 66,5 di dislivello è il risultato di un articolato stratificarsi di eventi durato secoli.
Altro intervento molto impegnativo fu la sistemazione del fosso Boccajone, dove confluiscono tutte le acque di scolo del versante orientale della città.
Il corso del torrente venne dapprima regolarizzato con una serie di serre trasversali e in seguito incanalato in una galleria sotterranea.
 

Il lavoro nel cantiere

Gli attrezzi utilizzati erano zappe e “picchioni“; il materiale di risulta veniva trasportato lungo le gallerie mediante “barcelle” (barelle) e carriole di legno.
Proprio per consentire l’agile transito delle carriole, nei punti in cui le gallerie formano una brusca curva, sono stati appositamente realizzati degli incavi negli spigoli, ancora oggi visibili.
Quando le dimensioni della galleria erano modeste – ciò accadeva se si restaurava un cunicolo antico che si era ostruito – si faceva ricorso a dei “cassettoni” di legno che venivano tirati con delle corde.
Quando il materiale da rimuovete era fango liquido, invece, venivano utilizzati dei secchioni di legno cerchiati in ferro.
Contemporaneamente allo scavo, nei tratti più instabili, veniva realizzata una puntellatura in travi di quercia.
Una volta collocati, era quasi impossibile recuperare questi legni, che, quindi, rimanevano inglobati tra il terreno ed il rivestimento in muratura della galleria.
Il rivestimento era composto da varie parti: “masso a stagno” sotto il pavimento, pavimentazione in mattoni, muri laterali, rivestimento di questi in mattoni e pietre lavorate, volta in mattoni oppure lastre di copertura.
La robustezza di ognuna di queste parti variava molto a seconda del tipo di terreno attraversato: per esempio le volte potevano essere costruite con mattoni messi di piano quando ci si trovava in uno strato di limi compatti, oppure messi di testa quando si attraversavano le pericolose argille; in questo caso lo spessore della volta poteva essere di una, due o addirittura tre teste di mattoni.
Si lavorava alla luce di lampade e lanterne di latta, alimentate ad olio o a petrolio, che veniva conservato in apposite borracce, occasionalmente è documentato anche l’utilizzo di candele.
Nonostante le condizioni e la pericolosità del lavoro dai registri delle spese non risultano molti infortuni eccetto un solo morto per il quale si provvede ad elargire una “mercede ad un beccamorto.
Va ricordato inoltre che per approvvigionamento il cantiere di mattoni furono costruite delle fornaci di laterizi sul posto.
Sappiamo dai documenti che la più grande di queste in una singola cottura (la cottura durava 13 giorni a fuoco continuo e 18 giorni di raffreddamento prima dell’estrazione del materiale, operazione che necessitava di un’altra settimana di lavoro) produsse 3296 mattoni sottili, 4610 mattoni doppi, 9165 rastremati per costruire volte e pozzi, 1328 mattoni di altre forme, 2650 coppi, 100 “mattoni doppi per camini” senza contare gli altri 200 pezzi circa sbriciolatisi durante la cottura.
I fornaciai erano persone altamente specializzate e spesso arrivavano da altri comuni.
I mattoni che uscivano erano marchiati con la sigla C.D.P. da sciogliere in “Commissione Deputata Piana“, organismo appositamente istituito per il controllo del cantiere.
Il principale scopo di tale marchiatura era evitare che i mattoni fossero sottratti per usi differenti da quello per cui erano stati appositamente prodotti.
 

Struttura dell’Ipogeo

La maggior parte delle gallerie presenta caratteristiche comuni: pavimento rivestito in laterizio con canaletta lungo uno dei lati, spallette laterali in muratura di pietre o mattoni, copertura a volta in laterizio con cagnoli sporgenti, per l’appoggio della centina, disposti a distanze regolari.
Sino al 1999 si poteva entrare nell’ipogeo soltanto con l’ausilio delle corde, attraverso il pozzo di accesso al livello inferiore.
Le ricerche condotte in questi anni dall’associazione Toward Sky hanno permesso di individuare altri cinque ingressi, rendendo non più necessario l’uso della corda per accedere all’interno.
Il livello superiore, infatti, può essere raggiunto attraverso un pozzo con pedarole il cui imbocco era nascosto da una macera di pietre, mentre quello inferiore è ora facilmente accessibile, grazie ad una botola e a un “pozzetto” in calcestruzzo munito di scala metallica che raggiunge l’apertura antica, rintracciata sotto 3 m di terreno di riporto, realizzato nell’autunno 2006.
In seguito a tali lavori sono stati individuati inoltre gli sbocchi in superficie dei pozzi e successivamente gli scavi hanno consentito il ritrovamento della Fontana dei Bottini sepolta completamente sotto metri di terra e vegetazione a partire dagli anni Sessanta del Novecento, momento del suo abbandono definitivo quale pubblico abbeveratoio e lavatoio della città di Todi.
 

Fruibilità

Il sotterraneo è visitabile su prenotazione con la formula dell’escursione speleologica: piccoli gruppi di massimo 10 persone sono accompagnati da una guida esperta.
Età minima dei partecipanti 10 anni.
La durata delle escursioni è di circa 1 ora.
Le escursioni si svolgono senza l’ausilio di attrezzatura alpinistica sono adatte anche a persone non specificatamente allenate ma in buona salute e abituate ad un normale esercizio fisico.
I partecipanti non devono soffrire di claustrofobia (paura degli ambienti chiusi).
Eventuali patologie o bisogni particolari dovranno venire comunicati alla guida prima dell’inizio dell’escursione.
I partecipanti dovranno presentarsi puntuali nel luogo stabilito per l’inizio dell’escursione, vestiti ed equipaggiati in maniera adeguata al percorso.
Si consigliano: calzature comode, vestiario comodo e non troppo ricercato (è possibile sporcarsi), pantaloni lunghi.
La guida fornirà ai partecipanti torce elettriche e caschi di protezione.
Per prenotazioni chiamare il 3280810989
 

Fonti documentative

http://www.todisotterranea.it

V. CHIARALUCE – M. ROCCHI BILANCINI, La Fabbrica della Piana. Ricerche su un cantiere ottocentesco a Todi, Quaderni dell’Associazione Culturale Toward Sky I, Todi, 2010.
 

Nota di ringraziamento

Ringrazio sentitamente Valerio Chiaraluce per la professionalità e per averci accompagnato e fatto da guida nei cunicoli; inoltre ringrazio Massimo Rocchi Bilancini per l’assistenza nella stesura del testo.
 

Mappa

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