Abbazia di San Galgano – Chiusdino (SI)

Anche se così ridotta non si direbbe, ma questa abbazia un tempo era la più potente fondazione cistercense della Toscana.

 

Cenni Storici

Pochi anni dopo la morte di San Galgano giunsero i cistercensi dall’abbazia di Casamari in Ciociaria
a sud di Roma poiché negli ultimi anni della sua vita Galgano era entrato in contatto con i Cistercensi e furono proprio loro a essere chiamati a fondare la prima comunità di monaci che risulta già attiva nel 1201.
Non sappiamo l’anno esatto; certamente alla fine del XII secolo i monaci si erano insediati sulla collina di Montesiepi, assorbendo gli ultimi eremiti galganiani i quali risultavano affiliati all’abbazia di Casamari.
Nei primi anni del 1200 il superiore del monastero è fregiato con l’appellativo di abate e si chiama Bono, di probabile origine francese.
Il monastero in cui vivevano i monaci, ancora esistente, divenne piccolo, ma la collina non permetteva alcun ampliamento agevole.
I monaci, consigliati dal vescovo di Volterra Ildebrando Pannocchieschi, conte feudatario del luogo, decisero verso il 1218 di scendere nella valle sottostante, ampia e fertile piana della Merse.
Il complesso richiese molti anni e fu edificato secondo i più rigidi criteri dell’arte e delle usanze dei monaci cistercensi ed il progettista sembra sia stato Donnus Johannes che l’anno precedente aveva portato a termine i lavori nell’abbazia di Casamari.
I monaci appartenevano ad un ordine monastico benedettino, fondato nel 1098 a Citeaux (il latino Cistercium) dall’abate Roberto di Molesme con lo scopo di ripristinare la regola di San Benedetto alquanto travisata da altri rami monastici.
Grazie specialmente a Bernardo di Chiaravalle (1090 -1153), l’ordine si sparse in tutta l’Europa, dando grande impulso all’economia agricola e diffondendo l’arte “gotica-cistercense” rinomata per la sua semplicità razionale.
Nel 1228 una delle infermerie era stata completata e l’anno successivo terminarono i lavori di costruzione della cella abbaziale.
I lavori terminarono nel 1268 quando venne consacrata dal Vescovo di Volterra, Alberto Solari, però alcuni suppongono che, solo verso il 1285 si ebbe il loro compimento sostanziale.
L’enorme patrimonio fondiario che i monaci erano riusciti ad accumulare grazie a donazioni e privilegi papali, imperiali, vescovili, resero potente l’Ordine che permise loro di entrare in possesso dei beni delle abbazie benedettine dei dintorni, tanto che alla metà del XIII secolo l’abbazia di San Galgano era la più potente fondazione cistercense in Toscana.
L’Abbazia fu inoltre protetta e generosamente beneficiata dagli imperatori Enrico VI, Ottone IV e dallo stesso Federico II, che confermarono sempre i privilegi concessi aggiungendone via via degli altri, ivi compreso il diritto di monetazione; il papa Innocenzo III esentò l’abbazia dal pagamento della decima.
La grande ricchezza dell’abbazia portò i suoi monaci ad assumere una notevole importanza economica e culturale tanto da spingere la Repubblica di Siena a stringere stretti legami con la comunità, tant’è che i monaci collaborarono con la repubblica Senese in vari campi: dalla giurisprudenza alla tecnica, dall’economia all’architettura.
Furono notai e giudici, incaricati dai papi e dalla Repubblica Senese ad ambascerie di pace.
Già nel 1257 il monaco Ugo era stato nominato camerlengo di Biccherna, cioè responsabile dell’erario della Repubblica.
Il monaco Ugo fu solo il primo di tutta una serie di monaci di San Galgano che occuparono quella carica, mentre altri assunsero la carica di “Camerlinghi“; cioè gestori e ministri del tesoro statale, incarichi di estrema fiducia.
Furono altresì chiamati a dirigere i lavori del Duomo di Siena e tra gli operai va segnalato frate Melano che nel 1266 stipulò il contratto con Nicola Pisano per la realizzazione del celebre pulpito della cattedrale.
Un monaco di nome Gnolo ebbe l’incarico di studiare se l’acqua del Merse poteva essere incanalata fino alle porte di Siena; numerosi mulini furono costruiti da essi lungo i corsi d’acqua, dettero inizio ai lavori di prosciugamento e bonifica delle paludi circostanti e regimentarono il corso della Merse per sfruttarne l’energia idraulica, spesso furono chiamati ad interessarsi delle miniere nei dintorni del monastero, lo stesso infatti possedeva un mulino, una gualchiera per la lavorazione dei panni e una ferriera.
I legami economici con il governo senese furono ottimi: il monastero era quasi al centro dello Stato e molti traffici provenienti dai pascoli, dal mare e dalle miniere vi sostavano sotto la protezione dei monaci, che, spesso, organizzavano importanti fiere.
Ma tutto questo splendore spirituale, culturale ed economico subì una rapida decadenza, prima la carestia del 1328 poi la peste del 1348, che vide i monaci duramente colpiti dal morbo, portò all’arresto dello sviluppo del cenobio, da aggiungere poi che nel 1364 si ebbero almeno due incursioni di mercenari al servizio di Firenze e l’abbazia fu devastata dalle truppe dirette da Giovanni Acuto tanto che alla fine del secolo la comunità si era ridotta a sole otto persone.
La crisi continuò anche nel XV secolo; nel 1474 i monaci fecero edificare a Siena il cosiddetto Palazzo di San Galgano e vi si trasferirono, abbandonando il monastero.
Il patrimonio fondiario comunque rimaneva tuttavia intatto e tale da scatenare una contesa tra la Repubblica di Siena e il Papato.
Nel giugno del 1506 papa Giulio II scagliò l’interdetto contro Siena perché aveva contrapposto il cardinale di Recanati al candidato papale Francesco da Narni per l’assegnazione dei benefici abbaziali. In questo contrasto politico, la Repubblica di Siena, guidata da Pandolfo Petrucci, resistette ordinando ai sacerdoti la celebrazione regolare di tutte le funzioni liturgiche.
Nel 1503 l’abbazia venne affidata a un abate commendatario e questo fu veramente il male peggiore, la vera peste che portò a rovina numerosi monasteri.
Dalla metà del XV secolo i Commendatari, abati titolari che percepivano le rendite dell’abbazia, si preoccuparono solo di sfruttare i beni, a scapito dei monaci, della disciplina monastica e degli edifici, sempre più abbandonati.
Il governo degli abati commendatari si rivelò scellerato tanto che Girolamo Vitelli verso il 1550 lasciò deperire i poderi, alienò oggetti preziosi e vendette persino il piombo del tetto delle due chiese, causa prima del lento ma inesorabile disfacimento del grande edificio.
Di tale situazione venne a risentirne la vita dei monaci, che nel 1550 erano rimasti appena cinque.
Nel 1600 c’era un solo e vecchio monaco, così malvestito da suscitare l’indignazione di un visitatore dell’epoca; le vetriate dei finestroni erano tutte distrutte, le volte delle navate erano crollate in molti punti e, presso il cimitero, rimanevano solo parte delle rovine delle infermerie, demolite all’inizio del Cinquecento.
Nella relazione fatta nel 1662 si legge che “La chiesa non può essere tenuta in peggior grado di quello che si trova e vi piove da tutte le parti“.
Dopo vari tentativi di riportarvi altri monaci, anche di ordini diversi, nel 1789, essendo la rotonda dell’Eremo dichiarata Pieve, fu inviato un sacerdote diocesano.
La grande chiesa venne del tutto abbandonata e i beni passarono in enfiteusi perpetua ad una nobile famiglia dei dintorni.
Nel 1781 crollò quanto rimaneva delle volte e nel 1786, dopo che un fulmine lo aveva colpito, crollò anche il campanile si salvarono le mura e la campana maggiore, opera del Trecento, ma per poco, infatti pochi anni dopo venne fusa e venduta come bronzo.
Negli anni seguenti l’abbazia venne trasformata addirittura in una fonderia, fino a che nel 1789 la chiesa fu definitivamente sconsacrata e abbandonata.
I locali del monastero invece diventarono la sede di una fattoria e vennero parzialmente restaurati già nei primi decenni del XIX secolo.
Con la dispersione dell’archivio dell’abbazia di San Galgano molte notizie sono andate perdute e altrettanto è successo per la data dell’anno in cui fu iniziata la costruzione della grande Abbazia con relativi edifici annessi.
 

Aspetto esterno

La chiesa è perfettamente orientata secondo le usanze rituali dei monasteri medioevali, cioè ha l’abside volta a est, la facciata a doppio spiovente non fu mai completata almeno nel suo rivestimento e dall’esterno fa capire la divisione spaziale interna, in questo caso a tre navate.
Nella parte inferiore della facciata vi sono quattro semicolonne addossate a lesene che avevano il compito di sostenere un portico che non fu mai edificato poiché non si ha notizia di esso in nessun documento.
Sono presenti tre portali con archi rotondi ed archivolti in pietra, oggi chiusi da inferriate.
Il portale maggiore è decorato con un fregio in cui sono scolpite delle figure fitomorfe a foglie di acanto della fine del 1200.
Nella parte superiore della facciata, forse rimasta incompiuta, sono collocate due finestre a sesto acuto; la parte terminale è stata reintegrata all’inizio del XX secolo con laterizi.
Nella parte inferiore, per tutta l’altezza delle navate laterali, vi sono aperture realizzare con monofore strombate con arco a tutto sesto mentre nella parte superiore, corrispondenti alle pareti della navata centrale, sono presenti delle grandi bifore, tranne che nelle due ultime campate vicino al transetto, dove le bifore sono sostituite da monofore ad arco a tutto sesto sovrastate da un oculo; tutte le colonnette di divisione delle bifore sono andate perdute, con l’eccezione di una finestra posta sul fianco destro.
Nei muri esterni dell’abside e del transetto si notano anche finestre ad occhio, con resti ai bordi di
trafori a forme diverse.
Nel fianco sinistro, era posto il cimitero e il suo limite era costituito dalla cappella del XIII secolo costruita in mattoni che è ancora presente.
L’abside si presenta racchiusa tra due contrafforti e mostra due ordini di aperture di tre monofore ad arco a sesto acuto; in alto è conclusa da un grande oculo sopra il quale ve ne è uno più piccolo, entrambe le cornici di questi oculi sono riccamente decorate.
Lo stesso motivo della monofora sovrastata da un oculo si ritrova nel prospetto laterale del transetto; due di questi oculi, uno visibile dalla parte posteriore e uno dalla fiancata destra, mostrano ancora la decorazione originale.
Nella parte sinistra dell’abside si trovano una porta e una monofora, questo è quanto rimane del campanile crollato nel 1786.
Sulla fiancata destra si sviluppava il chiostro, attorno al quale ruotava tutta la vita dell’abbazia.
Il chiostro risultava completamente distrutto già nel XVIII secolo, ma durante i restauri degli anni venti si decise di ricostruirne, con i materiali originari, almeno una piccola parte nell’angolo tra la Chiesa e l’aula Capitolare, composto da arcate con colonne binate che permettono di intuire la notevole bellezza originaria.
 

Interno

L’interno della chiesa ha la forma di una croce latina ed è una fusione di due stili romanico e gotico, si presenta privo della copertura e del pavimento, sostituito da terra battuta.
La pianta del Tempio ha una forte analogia con la Chiesa di Casamari (Frosinone) da cui provenivano i monaci.
Lo spazio interno è diviso longitudinalmente in tre navate di 16 campate di pilastri cruciformi, il transetto è suddiviso in tre navate, con quella orientale trasformata in quattro cappelle rettangolari poste due a due laterali a quella maggiore, la quale presenta una semplice abside rettangolare.
L’abside è a pianta quadrata secondo l’uso più frequente usato dai Cistercensi in quanto più austero,
semplice ed economico ed anche più adatto per collocarvi il coro ligneo per ospitare i monaci nelle cerimonie sacre.
Sia le cappelle sia le campate minori del transetto mostrano ancora l’originaria copertura con volte a crociera poggianti su costoloni.
Sul lato sud del transetto si aprono due porte: una introduce sulla sacrestia; l’altra, sollevata
dal suolo, tramite una scala ora scomparsa, permetteva ai monaci di entrare dai dormitori direttamente in chiesa per svolgere le funzioni notturne e mattutine.
Accanto alla porta inferiore vi sono due nicchie sagomate con grazia: sono dei lavabi liturgici.
Lungo la chiesa vi sono altre piccole nicchie per deporvi le lampade o piccoli oggetti per il culto.
Nel lato nord è innestata nel muro una scala a chiocciola (85) gradini in travertino bianco, ben conservata ed armoniosa; da essa si accede ai sottotetti.
Notevoli nella navata centrale sono gli archi a sesto acuto a doppia ghiera, le semicolonne da cui partivano le volte che coprivano le navate, la doppia cornice sopra le arcate e le decorazioni floreali sui capitelli; questi sono circa un centinaio e denotano una cura precisa e rifinita, frutto di una maturità stilistica.
Il capitello del primo pilastro a sinistra è particolarmente interessante, perché mostra ben scolpito, il viso di Ugolino di Maffeo, maestro degli intagliatori di pietra, forse l’ultimo architetto della chiesa.
Sulla parete di destra all’altezza dell’ultima campata vi è un portale che originariamente dava accesso al chiostro e che attualmente costituisce l’ingresso principale alla chiesa.
La sacrestia è coperta con volte a crociera in mattoni; riceve la luce da una finestra a sesto acuto in cotto e travertino; sopra di essa, al piano superiore, n’esiste un’altra (ricostruita in questo secolo) di analoghe misure dove si conservano gli arredi preziosi.
In quello che oggi è il cortile, un tempo era il Chiostro, di esso è rimasto,un angolo con delle arcate, ricostruito alcuni decenni fa con resti di recupero, da qui si accede all’aula capitolare, la sala usata dai monaci per i loro raduni non liturgici, un aula parlamentare dove si discuteva, si ascoltava e venivano infine prese le decisioni; era uno degli ambienti più importanti dell’abbazia in quanto da qui si deliberavano gli atti che riguardavano il governo della comunità.
Si accede da una grande entrata ad arco acuto formato da cunei in pietra e mattoni; due robuste
colonne abbastanza basse disposte nel centro, i cui capitelli e le basi sono scolpiti senza eccessiva eleganza, dividono l’aula in sei scomparti coperti da volte a crociera.
Nella parete di fondo tre finestre romaniche illuminano la sala; due grandi bifore laterali alla porta centrale sono divise da due colonne sormontate da un unico capitello di pietra che sorregge due archi di stile romanico.
Esse, diverse tra loro, presentano una decorazione in cotto di gusto quasi moresco.
Dalla sala capitolare si accede a un ambiente che è stato identificato come il parlatorio, all’estremità meridionale del piano terreno si trovava lo scriptorium, dove i monaci copiavano i manoscritti (oggi biglietteria).
È un ambiente molto vasto, diviso in due navate da cinque pilastri cruciformi che sorreggono delle volte a crociera con decorazioni a girali.
Al piano superiore si trovava il dormitorio dei monaci, suddiviso in celle, e una cappella.
Il resto del complesso oggi è scomparso.
Nel lato opposto alla chiesa probabilmente si trovavano il refettorio, le cucine, il focolare, i vari annessi e le latrine.
Il quarto lato del chiostro era occupato dalla dispensa, dai magazzini e dai locali destinati ai conversi, che la regola imponeva fossero distinti da quelli dei monaci.
Dietro il cimitero e l’abside della chiesa si trovavano le infermerie dei laici, che erano separate soprattutto per motivi igienici. 

Nota di curiosità

L’abbazia vista dall’alto rappresenta una croce perfetta.
 

Nota

Le foto di Raimondo Fugnoli e Silvio Sorcini..
 

Fonti documentative

V. Albergo M. Negrini – San Galgano l’Eremo e l’Abbazia – 2016

https://it.wikipedia.org/wiki/Abbazia_di_San_Galgano

 

Mappa

Link coordinate: 43.149447 11.154828

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