Eremo del Santo Marzio – Gualdo Tadino (PG)

L’eremo e la chiesa sono state ricostruite in questo secolo dopo la seconda guerra Mondiale.

 

La presenza dell’uomo nella Valle Santo Marzio

L’uomo scopri la piccola e racchiusa Valle di Santo Marzio circa quattromila anni fa percorrendo l’antichissimo percorso transappenninico che dal bacino gualdese, attraverso la valle del Fonno ed il valico della dorsale appenninica, scendeva verso la Valle di Salmaregia fino ad incunearsi nel versante adriatico. L’occupazione dell’area da parte di gruppi tribali fu agevolata dal fatto di poter vivere in grotte sufficientemente protette dalla presenza di sorgenti abbondanti di acqua.
La presenza dell’uomo è documentata già nel periodo del Bronzo Recente-Finale (XIII-X sec. a.C.) confermando un’occupazione stabile da parte di individui o gruppi sociali emergenti, capaci di esibire forme di accumulo di ricchezza, come attestano i vari utensili rinvenuti in uno dei complessi più importanti della protostoria italiana: il cosiddetto “Ripostiglio” di Gualdo Tadino che mostra confronti con l’area delle Terremare, ma anche con le grandi correnti commerciali dell’area egea, di quella danubiana-carpatica, nonché con quelle settentrionali dell’area baltica.
 

Una terra di Santi

Il silenzio e la tranquillità di quei boschi e le cime di quei monti ospitali per i dolci declivi, la ricchezza di acqua sorgiva, sin dai primi secoli dell’era cristiana hanno favorito la presenza di uomini noti per la loro santità.
Il fondatore dell’Ordine camaldolese S. Romualdo (1009-1011), S. Facondino Vescovo di Tadino, il suo Diacono Beato Gioventino, S. Pier Damiano, S. Giovanni da Lodi Vescovo di Gubbio, S. Rinaldo Vescovo di Nocera, S. Felicissimo, già prima dei seguaci di S. Francesco, per più o meno lungo tempo, condussero vita eremitica sulla montagna sovrastante l’antico Gualdo di Valdigorgo sulla sua sommità, che a queste presenze eremitiche deve il nome di Serra Santa, sorge anche oggi una antica chiesa dedicata alla S. S. Trinità.
Servi di Dio se ne stavano chiusi in preghiera, nell’antichità, anche in un romitorio a Campitella, in una gola tra il Monte Serrasanta ed Monte Fringuello, oltre le sorgenti della Rocchetta.
Nella seconda metà del ‘400 in questi luoghi esistevano cinque antichissimi Eremitori, prossimi l’uno all’altro, tanto è vero che erano conosciuti anche come « Le Romite ».
L’eremo di Santo Marzio, qui in Valdigorgo, prende il nome dal suo ospite più illustre.
Fu costruito intorno al 1219 dai seguaci di San Francesco.
 

Santo Marzio e gli altri Eremiti

Marzio nacque nel 1210 a Pieve di Compresseto da onesti agricoltori e da giovane esercitò a Gualdo il mestiere di muratore. Entrò, quindi, in contatto con i Francescani ed affascinato dal loro credo visse con loro per qualche tempo senza entrare nell’ordine. Dopo che i Francescani, nel 1241, decisero di trasferirsi all’intento della nuova città, a Marzio dispiaceva abbandonare l’eremo di Valdigorgo e chiese ai Gualdesi di utilizzarlo con l’orto ed il bosco ed ottenne il permesso.
Quindi nel 1243 si stabili in questo luogo costruendovi una chiesetta ed un’abitazione e vi rimase, con altri eremiti, per 60 anni, pregando e lavorando, fino alla morte avvenuta l’8 ottobre del 1301, all’età di 91 anni. Le cronache narrano di miracoli operati dal Beato dopo la sua morte.
Le sue spoglie, dopo varie vicissitudini, riposano nella cattedrale di San Benedetto.
Un altro eremita in odore di santità visse per alcuni anni in quest’eremo.
E’ il beato Maio, nato in Gualdo nel 1220. Dedicò tutta la sua esistenza ad opere pie e ad un certo punto della sua vita rinunciò a pubbliche cariche (come quella di membro del General Consiglio Gualdese, tanto che in seguito vari comuni dell’ Umbria e delle Marche lo elessero Patrono dei propri Consigli Comunali), donò per beneficenza tutti i suoi beni al Comune (che li destinò poi all’antico Ospedale Gualdese della Carità) e si rinchiuse nell’Eremo di Valdigorgo dove morì e fu sepolto nel 1260 (secondo il Cronista Fra Paolo) o nel 1270 (secondo lo Jacobilli).
Le sue spoglie, dopo vari trasferimenti, riposano nella chiesa cattedrale di San Benedetto.
Nel 1367 si recò in Valdigorgo e vi rimase per tre anni anche il beato Tommasuccio dopo la morte del Beato Pietro (celebre scrittore di poetiche poesie) con il quale convisse nell’eremo di Rigali (oggi scomparso) per 24 anni.
 

La grotta di Frate Fava

Tra i Confratelli ospiti nell’eremo di Valdigorgo c’era anche un certo frate Fava. Costui, ad un certo punto della sua esistenza, sentì intenso il desiderio di ritirarsi in solitudine in una grotta ai piedi della gola rocciosa di Campitella, tutt’ora esistente e raggiungibile attraverso un sentiero nel bosco.
Francesco d’Assisi, nel corso della sua terza visita in Gualdo, sali fino alla grotta e, constatate le pessime condizioni fisiche in cui versava frate Fava per le penitenze e gli stenti cui si sottoponeva, lo convinse a ritornare a vivere in Valdigorgo con i suoi confratelli.
L’eremo di Santo Marzio è l’unica testimonianza rimasta di questa ricca presenza e la si deve all’iniziativa di un nostro concittadino, Rino Salerno, che, dai ruderi, riedificò, subito dopo l’ultima guerra, l’eremo e la chiesa.
 

San Francesco d’Assisi in Valdigorgo

Francesco d’Assisi, giovane ed in abito secolare, il 24 febbraio giorno di San Mattia, dopo aver ascoltato il passo del Vangelo secondo Matteo nella chiesa di Santa Maria degli Angeli ad Assisi, sentì fortemente la necessità di portare la Parola di Dio per le strade del mondo.
Iniziò così la sua predicazione nei dintorni di Assisi ed oltrepassato il Subasio giunse anche in Valdigorgo per predicare alla comunità dei Gualdesi.
Ma non fu accolto bene. Nei Codici Medioevali Gualdesi si legge che la popolazione, rozza ed incapace di comprendere la nuova dottrina del grande riformatore, lo considerava come un pazzo e lo scacciò tra beffe e risa, inseguito dai ragazzi schiamazzanti che contro di lui lanciavano sassi, bastoni, sandali e fango. Ritornando indietro, il grande Assisano, giunto al fiume Rasina, presso il confine del territorio gualdese, si deterse con quelle acque del fango e delle immondezze che erano stati lanciati sulla sua persona e riprese pazientemente il cammino, per portare in altri luoghi la sua parola rinnovatrice.
Nel 1209 Francesco, con i 12 compagni che aveva raccolto intorno a sé, si recò a Roma per ottenere dal papa Innocenzo III l’autorizzazione della regola di vita per sé ed i suoi frati ed il Pontefice, dopo qualche esitazione, concesse la propria approvazione orale per il suo “Ordo fratum minorum“.
Cominciò, quindi, a diffondersi la sua fama e sì moltiplicarono i suoi discepoli. Cosi, quando intorno al 1212 Francesco tornò a Gualdo, ricevette ben altra accoglienza da parte della popolazione, tanto che sostò in questo luogo per alcuni giorni.
Visita fruttuosa perché alcuni Frati Minori si stabilirono anche nella Gualdo di Valdigorgo, sembra per opera di S. Rinaldo, Vescovo di Nocera, ed ivi eressero, circa il 1219, un piccolo Convento con Oratorio, intitolato ai Santi Stefano e Lorenzo Martiri.
Intorno al 1224, quando ormai il convento era stato ultimato, Francesco d’Assisi tornò una terza volta a Gualdo ospite dei suoi seguaci nella nuova dimora. I Francescani restarono in Valdigorgo fino al 1241, quando, per essere più vicini alla popolazione, decisero di trasferirsi all’interno della nuova città edificata (dopo l’incendio del 1237 che distrusse il piccolo borgo) sul Colle Sant’Angelo ai piedi della Rocca Flea.
 

La Valle di Santo Marzio

La valle Santo Marzio è una formazione del paesaggio gualdese di piccola ampiezza, caratterizzata da una zona di terreno in pendio, che si estende sotto M. Serrasanta, la cui origine è dovuta al processo crosivo delle acque o da attività tettoniche: prende tale nome perché nella seconda metà del sec. XIII vi ha dimorato l’eremita beato Marzio.
In antico era chiamata Val di Gorgo per le abbondanti sorgenti di acqua che sgorgavano dalle viscere della terra e che ancora oggi alimentano l’acquedotto pubblico.
Questo più antico nome, che continuava ad estendersi fin sulla cima della montagna, è ricordato per la prima volta in una sentenza del 28 Settembre 1332 del podestà di Gualdo contro Grifone di Balduccio, che veniva condannato al taglio del piede destro, alla confisca dei beni ed al bando dal distretto di Gualdo, perché reo di numerosi misfatti commessi in particolare “in Valle di S. Donato, in Valle Sorda ed in Valle Gorga” .
Venuto in uso l’attuale agiotoponimo Valle Santo Marzio, la popolazione continuò per abitudine ad utilizzare promiscuamente ancora il primitivo nome di Val di Gorgo, prima di abbandonarlo definitivamente agli inizi del Settecento.
In un successivo documento è detto che la valle de Santo Marzio è posta sotto il «Sasso della Lemeta», riferimento, forse, alla cosiddetta Balza di Mezzogiorno.
 

Le Sorgenti di Santo Marzio

La Valle Santo Marzio è la località che più di altre si lega alla storia del territorio per la presenza e per la ricchezza delle sorgenti e per la qualità delle loro acque, che hanno fama di possedere particolari proprietà terapeutiche.
Circoscritte tra Monte Fringuello e Monte Serrasanta e circondate da rocce e boschi secolari, sono alimentate dalle piogge e dalle nevi per la particolare ossatura calcarea ad alta permeabilità della dorsale appenninica, che favorisce una veloce, elevata e costante circolazione di acque nel bacino sotterraneo. Scaturiscono tra i 550-650 metri s.l.m. prendendo il nome di sorgente Racchetta, per la presenza nel medioevo di una torre di avvistamento, e Santo Marzio, per la permanenza nella seconda metà del secolo XIII dell’omonimo eremita.
La vena d’acqua di Santo Marzio, che scendeva libera tra le rocce per alimentare il fiume Feo, nel 1897 fu raccolta in una cisterna di riunione ed incanalata nella conduttura di ghisa del pubblico acquedotto.
 

Breve storia di Gualdo ( Da Tadino a Gualdo )

Da Tadino a Gualdo In seguito alla distruzione della città di Tadino, (la Tadinum romana), operata nell’anno 996 dall’esercito dell’imperatore Ottone III, mentre gran parte della popolazione superstite si disperse sul territorio dando vita all’incastellamento o si trasferì presso la rocca di Nocera, per iniziativa del nobile Rinaldo, padre di sei figli, un altro gruppo dei superstiti si raccolse presso una Abbazia benedettina esistente nelle vicinanze della città, dove costruì un “castrum pauperculum“, “sine muris“, ma circondato da siepi e fossati, in un sito che era chiamato “Waldum” (bosco in termini Lohgobardi) da cui il castello prese il nome di Gualdo.
Presso il piccolo castello, dove nell’agosto del 1155 era accampato con il suo esercito l’Imperatore Federico Barbarossa, fu ricevuta una delegazione della città di Gubbio guidata dal Vescovo Ubaldo, venuta per fare atto di sottomissione.
Ma, poiché il sito in cui era stato costruito il nuovo castello era poco idoneo alla difesa dei suoi abitanti, i Gualdesi che si erano organizzati come libero comune sotto la guida di un console nel 1180 decisero di trasferirlo in una località più sicura e difendibile, sulle pendici del monte Serrasanta in località Valdigorgo, presso le fonti della Rocchetta.
Tuttavia anche qui una nuova calamità si sarebbe abbattuta sulla piccola comunità, nella primavera del 1237, quando un furioso incendio, causato accidentalmente da una donna “nomine Bastula“, mentre accudiva ai lavori domestici “cum prunas ardentes a clybano reportaret“, ed alimentato dal forte vento “vehementius perflante“, lo distrusse completamente.
La nuova catastrofe impose pertanto ai Gualdesi l’esigenza di un ulteriore spostamento della loro città per cui, il 30 aprile dello stesso anno, fra il Sindaco di Gualdo, Pietro di Alessandro, e l’abate benedettino Epifanio, fu stipulato un contratto con cui l’Abbazia concesse in enfiteusi perpetua al comune di Gualdo il colle Sant’Angelo, allo scopo di erigervi un nuovo castello, alle cui fortificazioni avrebbe contribuito negli anni successivi anche l’Imperatore Federico II.
 

La Leggenda del Serpente Regolo

Secondo la credenza popolare orale, molto diffusa nel territorio gualdese, vive e difende la zona più impervia e intatta, nella sua selvaggia bellezza della valle del Fonno, ancora oggi incontaminata, il serpente Regolo, una creatura mitico-leggendaria dai lineamenti solitamente serpentini o comunque affini ad un rettile, che nell’immaginario collettivo é descritto con corpo tozzo, squame lucenti, due piccole ali sul dorso, testa grande come quella di un bambino, coda mozzata, orecchie dritte, muso schiacciato simile a quello di un gatto, che apparirebbe ogni secolo in cerca di cibo, terrorizzando i malcapitati che hanno la sfortuna di incontrarlo, perché la sola vista provoca l’ipnosi: secondo la stessa leggenda medievale, arricchita di elementi irreali, sarebbe il guardiano di un tesoro favoloso.
La narrazione tradizionale del serpente Regolo ricorda quella simile del Basilisco, altra creatura della mitologia fantastica a metà tra un gallo ed un serpente, poiché non è un caso che il termine latino “regulus” e quello greco “basiliskos” abbiano lo stesso significato, cioè “piccolo re” o “reuccio“.
Sant’Agostino è ancor più preciso, poiché lo definisce il “re dei serpenti“, cioè il demonio, ovvero il dragone, quindi Satana, personificazione delle forze del male.
Chi lo incontra non ha scampo, perché secondo le antiche credenze sarebbe la creatura più mortale in assoluto, dal morso velenosissimo ed in grado di uccidere con il solo sguardo uomini e animali.
L’aspetto esteriore del serpente Regolo ha una sua rappresentazione morfologica favolosa in molti racconti e leggende delle popolazioni dell’Appennino centrale, essendo rappresentato in vari aspetti e con differenti caratteristiche, anche se tutte le versioni hanno alcuni tratti in comune: la nascita del serpente Regolo “da un uovo sferico di gallo anziano di sette o quattordici anni, deposto su un mucchio di letame e covato da un rospo, da una rana o da un serpe per nove anni“: ecco perché, una volta venuto alla luce, può assumere la forma di un gallo con la coda di serpente o quella di un serpente alato, quindi una sorta di drago delle leggende medievali.
L’animale mitologico, a volte rappresentato anche con il corpo di serpente, testa di gallo, ali e zampe d’aquila, nel Medioevo era considerato l’espressione infernale che si anteponeva a quella divina: nelle numerose riproduzioni iconografiche dei secoli XV e XVI il serpente Regolo ha le sembianze di un rettile favoloso che, secondo la credenza, aveva l’alito velenoso che dava la morte, al pari del suo sguardo mortale.
Ecco spiegato il motivo per cui alcuni racconti narrano che l’unico modo per difendersi dalla bestia immonda fosse quello di usare uno specchio nel quale il dragone, rispecchiandosi, avrebbe trovato la morte per opera del proprio sguardo.
Nel Medioevo, sia i bestiari, significative composizioni didattiche, che le opere letterarie, che descrivevano le “nature” e le “proprietà” degli animali per ritrovare in essi insegnamenti di ordine religioso e morale, utilizzavano le figure retoriche dei più demoniaci (il regolo, il serpente, il drago e il basilisco) per identificare lo stato più basso di una scala di valori da cui partire per il raggiungimento del “tesoro dei tesori“, di cui il serpente Regolo stesso era il malefico guardiano.
Si dice che il mostro usasse ipnotizzare i malcapitati che si arrampicavano lungo la forra di Campitella senza però approfittarne, ma che era anche il dragone leggendario, il mostro favoloso, spesso assunto a simbolo e personificazione del demonio, il cui aspetto fantastico incuteva un senso di orrore e repulsione, da combattere e sconfiggere.
E’ il drago descritto nell’Apocalisse, identificato con Satana, simbolo e incarnazione del male, combattuto e vinto da San Michele Arcangelo, patrono di Gualdo Tadino.
 

Fonti documentative

Cartellonistica sul Posto
 

Nota

La galleria fotografica è stata prodotta da Gabriele Finamondi
 

Da vedere nella zona

Eremo di Serrasanta
Pieve di Compresseto
Castello di Compresseto
Abbazia di San Pietro in Valdirasina
 

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